Riserva cognitiva, mito o realtà?

ROMA – A questa domanda vuole rispondere, analizzando i dati della ricerca internazionale condotta negli ultimi 15 anni, l’ampia rassegna sistematica pubblicata su Alzheimer’s & Dementia da Chiara Pappalettera, Claudia Carrarini, Francesca Miraglia, Fabrizio Vecchio, Paolo Maria Rossini, afferenti all’IRCCS San Raffaele di Roma, all’Università Cattolica, alla eCampus University.

Il lavoro evidenzia l’importanza di comprendere a fondo il concetto di riserva cognitiva sia nel contesto dell’invecchiamento patologico sia in condizioni di invecchiamento “normale”, in modo da riuscire un giorno a potenziare questo fattore protettivo ai fini della preservazione delle capacità cognitive nelle persone anziane in salute e in quelle neurologicamente compromesse.

Gli Autori partono spiegando cosa si intenda col termine “riserva” in campo biomedico, ossia la capacità di una persona di mantenere una data funzione a livello cellulare, organico o sistemico nonostante la presenza di danni o malattie: lo stesso concetto può applicarsi al cervello e alle sue funzioni cognitive. Ma – sottolineano i Nostri – “il concetto di riserva non è chiaro come sembra, specialmente quando lo si vuole misurare”.

Uno dei problemi principali è infatti che non esistono ancora metodi uniformi di indagine né linee guida sull’argomento. Dalla review emerge che differenti studi hanno utilizzato non solo differenti metodi di misura ma anche diverse definizioni di riserva cognitiva; si aggiunga che queste “misurazioni” non sono sempre direttamente connesse al fenomeno in questione e non forniscono valutazioni accurate a livello individuale.

Vari fattori sono stati studiati: si va dalla genetica a variabili di natura sociocomportamentale come il livello di educazione, lo stato occupazionale, le attività del tempo libero, le condizioni neuropsicologiche; dalla struttura e le funzioni del cervello alla connettività e l’attivazione neuronale, indagabili con neuroimaging ed elettrofisiologia. Tra questi, un approccio innovativo e promettente si sta rivelando l’analisi “a rete” (c.d. network analysis).

È dunque ora possibile tracciare un quadro di sintesi che consenta di mettere meglio a fuoco i termini della questione. Parliamo di “riserva cerebrale” considerando il volume del cervello, lo spessore corticale, il numero di neuroni e sinapsi, l’architettura e la forza delle connessioni.

Il “mantenimento cerebrale” si riferisce allo stato in cui i cambiamenti nel tempo a livello di risorse neurali e neuropatologia sono minimi, quale condizione in grado di preservare le funzioni cognitive in età avanzata.

Con “riserva neurale” si intende la variabilità interindividuale nelle reti cerebrali primarie alla base delle prestazioni su compiti; con “compensazione neurale” il processo per cui le persone con danni cerebrali utilizzano strutture e reti neurali alternative vicarie per compensare.

Infine la “riserva cognitiva” viene attribuita in special modo alla “abilità di una persona di fare fronte al danno cerebrale mediante preesistenti processi cognitivi o utilizzando modalità compensative”.

“Questa revisione – spiegano gli Autori – ha dimostrato la complessità delle misurazioni attuali della riserva cognitiva e la natura sfuggente del concetto: armonizzare il campo attraverso un approccio integrato e multidisciplinare è essenziale per stabilire metodologie coerenti e facilitare la collaborazione tra le comunità scientifica e clinica”.

“Qualsiasi intervento mirato a stili di vita e fattori modificabili che potenziano la riserva cognitiva potrebbe migliorare significativamente la resilienza cerebrale negli anziani e servire come mezzo per valutare ed integrare l’efficacia dei trattamenti farmacologici e non”, concludono.

Lo studio:

Pappalettera C, Carrarini C, Miraglia F, Vecchio F, Rossini PM. Cognitive resilience/reserve: Myth or reality? A review of definitions and measurement methods. Alzheimer’s Dement. 2024;1-20. https://doi.org/10.1002/alz.13744 (Open Access)

Foto di Sandie Clarke su Unsplash

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