Tecnologie, strumenti informatici, mezzi di comunicazione: come hanno cambiato le nostre vite e il nostro cervello

Abstract – Negli ultimi decenni e in specie negli ultimi anni la tecnologia, l’informatica, i mezzi di comunicazione hanno cambiato enormemente le nostre abitudini di vita, e forse non ne siamo pienamente consapevoli. Scopo del presente articolo è esaminare l’impatto di tali fenomeni e le loro conseguenze, accennando anche ai risvolti neurofisiologici di queste trasformazioni.

Chi di voi, che state cominciando a leggere questo articolo, ha acquistato nelle ultime settimane, o anche negli ultimi mesi, un quotidiano nella sua versione cartacea? Certo, qualcuno, ma non credo tutti e forse neanche molti.

E se chiedessi chi ha acquistato ultimamente un CD audio, o un DVD di un film? Credo ancora meno.

E chi ha scritto a mano? Non dico un appunto o la lista della spesa, ma una lettera, e naturalmente l’articolo o la pubblicazione cui state lavorando. Credo davvero pochi, forse nessuno.

Ecco, vorrei partire da quest’ultima “attività”, la scrittura manuale, per una riflessione su quanto è cambiato negli ultimi decenni, e via via sempre più velocemente negli ultimi anni, riguardo molti nostri comportamenti, attitudini che erano comunissime, abituali e che sono progressivamente divenute obsolete, praticate da pochi. E condurre con voi una riflessione su questi cambiamenti, su che cosa essi comportano. Allargando poi l’orizzonte ai numerosi fenomeni che hanno cambiato enormemente l’approccio all’istruzione e all’apprendimento, nonché l’utilizzo delle forme di comunicazione, proveremo a cogliere l’impatto di tali fenomeni non solo nella nostra vita quotidiana, ma le loro conseguenze, anche per quanto concerne i risvolti neurofisiologici.

La scrittura a mano, dunque, divenuta sempre più insolita e sostituita da quella sulla tastiera del computer. Infinite le ricerche, gli studi o anche le semplici osservazioni su ciò. Rosario Coluccia, accademico della Crusca, scrive sul sito dell’Accademia [1]:

Fino alla scuola degli anni ’60 del Novecento bambini e ragazzi si sono sempre esercitati nella ‘bella scrittura’. L’ora di calligrafia era inserita fra le materie di studio; poi fu abbandonata, giudicata strumento educativo sorpassato, mortificante della creatività. […] L’aspirazione a una scrittura ordinata e ben leggibile non è un fatto estetizzante. La scarsa connessione neuro-cerebrale tra pensiero e manualità crea ritardi nello sviluppo del linguaggio, parlato e scritto. Ne viene coinvolto il processo cognitivo di bambini e adolescenti, fondamentale perché implica l’esercizio di una capacità umana molto antica (la scrittura è stata inventata più o meno cinquemila o cinquemilacinquecento anni fa), che oggi corriamo il rischio di perdere. Diciamolo in maniera esplicita. La scrittura a mano non può essere sostituita dalla scrittura su tastiera, sono entrambe utili perché assolvono a funzioni diverse. Nel mondo occidentale bambini e ragazzi sono fortemente sedentarizzati; alcuni non sanno abbottonarsi i vestiti o allacciarsi le scarpe (sono in gran voga scarpe senza lacci, definite “a strappo” o “con strappi”; praticissime, assicura la pubblicità, e crescono le vendite delle scarpe a strappo); altri non sanno lavarsi i denti da soli; altri non riescono a fare operazioni semplici (tracciare cerchi e rettangoli con l’aiuto di compasso e di righello) o addirittura attività semplicissime (ridurre un foglio di carta in segmenti più piccoli tendenzialmente uguali). E, nello stesso tempo, mostrano carenze espressive e linguistiche. Redigere testi scritti in maniera chiara e ordinata è un eccellente allenamento cerebrale. […] La difficoltà di scrivere nitidamente ha riflessi sulla qualità dell’apprendimento e sulla capacità di coordinare il pensiero.

E non solo nella scrittura, ma anche nella lettura abbiamo cambiato drasticamente modalità. Leggere su dispositivi elettronici (gli ebook reader) ha indubbiamente alcuni vantaggi (a partire dal costo ridotto del libro, o dalla possibilità di avere centinaia/migliaia di testi in un dispositivo delle dimensioni di una tavoletta), ma non è la stessa cosa: la lettura è tattile oltre che visiva e passare dalla carta allo schermo influenza il nostro grado di attenzione. Sono molte le ricerche che affermano che un libro letto su un ebook viene ricordato di meno di uno letto su carta. Ma basta un altro esempio per comprenderne la diversità: credo che moltissimi di noi per studiare (nel senso stretto della parola) non possano ancora fare a meno del libro cartaceo e questo certo dipende anche dall’abitudine, dall’aver appreso sui testi tradizionali, sottolineandone o evidenziandone i passaggi ritenuti più utili. Per i più giovani, non è così: i ragazzi riescono a studiarci, quindi qualcosa è cambiato; ma sul significato di questo torneremo poi.

L’esempio degli ebook ci sposta verso mezzi informatici di ben altro rilievo e impatto. L’uso del cellulare, per esempio, ci ha tolto la necessità di memorizzare numeri di telefono (chi oggi ricorda più anche solo il numero del cellulare dei propri figli? ci pensa la rubrica…), di fare calcoli mentali (sempre sul cellulare c’è la calcolatrice a portata di mano, immediata) e molte altre abilità mentali non vengono più esercitate perché sostituite dal cellulare le cui funzioni sono ormai moltissime, inimmaginabili sino a poco tempo fa. C’è chi ipotizza che i navigatori e i GPS, altra funzione dei dispositivi mobili, che ci portano senza fatica in un qualsivoglia posto, abbiano di fatto ridotto la nostra capacità di orientarsi.

Più in generale, non abbiamo più bisogno di memorizzare, perché qualunque informazione possiamo chiederla a Google o ad Alexa, a Wikipedia e ultimamente ci si è messa anche ChatGPT. Non è certo una novità, i ricercatori ben conoscono questa minore necessità di memorizzare le informazioni internamente quando sono facilmente reperibili altrove: lo hanno chiamato, non a caso, “effetto Google”.

I videogiochi, per dirne un’altra, hanno soppiantato ampiamente il gioco in strada, all’aperto, di gruppo, sostituendolo con una modalità ludica isolata, solitaria. Per non dire dei cambiamenti collaterali che questo ha comportato: si pensi solo alle modalità di risposta agli stimoli (immediata nei videogiochi) o alla componente spesso fortemente competitiva, per dire aggressiva e violenta degli stessi: uno studio del 2013 [2] ha rilevato come molti videogiochi possano inibire la capacità dei giocatori di tenere a freno il comportamento impulsivo e aggressivo, costringendoli a prendere decisioni veloci in situazioni violente, con la conseguenza che si inibisce il “controllo esecutivo proattivo” su reazioni impulsive e sugli impulsi stessi.

Se poi ci spostiamo all’uso dei social, ci accorgiamo quali cambiamenti essi hanno comportato. Connotarli come “epocali” non è esagerato. C’è una letteratura ormai sterminata sul loro impatto nelle nostre vite, sul nostro modo di rapportarsi con gli altri, e anche su come rischiano di cambiare (o hanno già cambiato…) le nostre reti neurali. Qui ci basterà dire, per stare in tema, che la scrittura e il linguaggio, costretti e limitati nello spazio e nella forma degli SMS, dei messaggi WhatsApp e dei post, si sono impoveriti al di là di ogni dubbio. E sappiamo che meno parole, meno ricchezza e articolazione del linguaggio hanno indubbie ricadute sul pensiero che si impoverisce anch’esso. Dirompente, in proposito, l’affermazione del filosofo Umberto Galimberti in un’intervista televisiva: “Noi italiani siamo all’ultimo posto per la comprensione di un testo scritto. Vuol dire che uno legge e non capisce. C’è un analfabetismo di ritorno, aiutato anche dall’informatica, che riduce il linguaggio a cinquanta parole. Ma se hai poche parole in bocca, non hai tanti pensieri in testa. Perché i pensieri sono proporzionati alle parole che hai. Non posso pensare una cosa di cui non ho la parola. Se ho poche parole, penso poco”.

Questo tema ci porta all’istruzione e all’apprendimento, altri ambiti in cui i mutamenti verificatisi negli ultimi anni sono impressionanti: la recente pandemia da coronavirus, per esempio, ha comportato forzatamente un grande utilizzo delle lezioni a distanza in sostituzione di quelle in presenza, ma ben prima dell’avvento del Covid-19 questa modalità si diffondeva progressivamente, specie nelle istituzioni di ordine superiore (si pensi anche solo alle università on-line). Inutile dire, anche qui, che presenziare a una lezione è cosa diversa che seguirla online. Ma, appunto, è solo un esempio, perché moltissimi e travolgenti sono i cambiamenti che si sono verificati: con una battuta potremmo dire “dal gessetto della lavagna alla lavagna interattiva multimediale (LIM)”. Con una preoccupazione aggiuntiva: che il personale insegnante, spesso non giovane e magari refrattario a queste nuove modalità, è impreparato a gestire queste trasformazioni.

Altri infiniti esempi potrebbero essere fatti per cogliere quanto rilevanti sono davvero i cambiamenti che stiamo registrando in questi ambiti, ma credo ne abbiamo elencati abbastanza per mettere a fuoco il problema. Ora, la domanda che ci interessa è: “si tratta solo di cambiamenti o stiamo perdendo qualcosa?”. Il dubbio che si stia perdendo qualcosa sussiste, eccome: le basi ci sono tutte, e alcune prove a suffragio di questa ipotesi le abbiamo già riportate. Se è vero, come ipotizzano molti neurofisiologi, che le funzioni cerebrali rispondono alla legge use or lose it (“se non lo usi, lo perdi”) rischiamo che le abilità connesse alle funzioni sopraelencate vadano perdute, e ciò può essere pericoloso perché si tratta di attività che richiedono sforzi di applicazione (come il calcolo mentale) o acquisizione di capacità (come l’orientamento).

Non solo: Doidge, nel suo famoso testo Il cervello infinito [3], scrive: “Se smettiamo di esercitare le nostre facoltà mentali, non le dimentichiamo e basta: la parte di mappa cerebrale per quelle funzioni viene occupata dalle altre che invece continuiamo a svolgere”.

Questo ci rimanda al concetto di “neuroplasticità”, la capacità del nostro cervello di adattare la propria struttura in risposta a una varietà di fattori e di stimoli interni o esterni, così come all’ambiente circostante e all’esperienza. Sono noti diversi tipi di neuroplasticità, distinta sostanzialmente in strutturale e funzionale. La neurogenesi è tipica dello sviluppo, e ha a che fare con la formazione dei neuroni e delle connessioni sinaptiche, mentre i cambiamenti che si verificano nelle connessioni neurali in seguito a nuovi comportamenti appresi definiscono la plasticità dipendente dall’esperienza, ed è di questa che stiamo parlando.

È chiaro, dunque, che perdere alcune funzioni (come scrivere a mano, non leggere più su carta e molte altre cui sopra abbiamo accennato) indubbiamente ridurrà la ricchezza delle connessioni neurali in alcune specifiche aree (anche se è auspicabile che se al contempo vengono sviluppate nuove funzioni, nuove attitudini, altre aree avranno più connessioni).

Non stiamo certo parlando quindi di modificazioni genetiche, ma se è vero che l’eredità genetica sembra essere cambiata poco o nulla dall’età della pietra, la vita sociale, le abitudini, sono cambiate completamente e hanno subìto sconvolgimenti: “attraverso ciò che facciamo e come lo facciamo – momento per momento, giorno dopo giorno, consciamente o meno – alteriamo i flussi chimici delle sinapsi e cambiamo i nostri cervelli. E quando trasmettiamo i nostri abiti mentali ai figli, attraverso gli esempi che proponiamo, l’istruzione che forniamo loro e i media che usiamo, tramandiamo anche tutte le modifiche nella struttura del cervello”. Lo scrive Nicholas Carr, autore del celebre libro Internet ci rende stupidi? [4].

Vale la pena di leggere nella sua interezza questa riflessione, intima e appassionata al contempo, nella quale molti si riconosceranno:

Negli ultimi anni ho cominciato ad avere la sgradevole sensazione che qualcuno o qualcosa stesse armeggiando con il mio cervello, cambiando la mappa dei miei circuiti neurali, riprogrammando la mia memoria. La mia mente non se ne sta andando – almeno per quanto ne so –, ma sta cambiando: non penso più nel modo in cui pensavo prima. Me ne accorgo soprattutto quando leggo. Di solito mi risultava facile immergermi in un libro o in un lungo articolo. […] Oggi non ci riesco quasi più. La mia concentrazione comincia a scemare dopo una o due pagine. Divento irrequieto, perdo il filo, comincio a cercare qualcos’altro da fare. […] Credo di sapere cosa mi stia succedendo. Da più di dieci anni trascorro ormai molto tempo su Internet, facendo ricerche, navigando fra i siti, il Web è una manna per uno scrittore come me. Ricerche che una volta richiedevano giorni interi tra gli scaffali o le sale riviste delle biblioteche ora si possono fare in pochi minuti. Un giro su Google, un paio di rapidi click sui link, e ottengo gli estremi di un fatto o una citazione che stavo cercando. […] Faccio online anche la maggior parte delle operazioni bancarie e degli acquisti. Uso il browser per pagare i conti, per organizzare i miei appunti, per prenotare voli e camere d’albergo […] L’aiuto è reale. Ma ha un prezzo. Come già sosteneva McLuhan, i media non sono semplici canali per le informazioni. Non solo forniscono materia del pensiero, ma modellano anche il processo del pensare. E la rete sembra mandare in frantumi la mia capacità di concentrazione e di contemplazione. Che sia online o no, ora la mia mente si aspetta di ottenere le informazioni nel modo caratteristico della Rete: come un flusso di particelle in rapido movimento. Una volta ero un subacqueo nel mare delle parole. Adesso passo a grande velocità sulla superficie, come un ragazzino in acquascooter.

Il rischio che più nessuno voglia leggere Guerra e pace, I fratelli Karamazov o Alla ricerca del tempo perduto, perché troppo lunghi e perché richiedono concentrazione e attenzione, sussiste, eccome. E non si dica che è cosa da poco, perché la perdita per la nostra cultura o semplicemente per il nostro Pensiero sarebbe immensa. Leggerne il riassunto su Wikipedia, quel tanto che basta per sapere di cosa si tratta, non sostituisce l’esperienza di letture così determinati, straordinarie, immersive.

La riflessione di Nicholas Carr così prosegue:

Calma, concentrata, senza distrazioni, la mente lineare è stata messa da parte da un nuovo tipo di mente che vuole e deve prendere e distribuire con parsimonia le informazioni a piccoli scatti, sconnessi, spesso sovrapposti; più veloce è, meglio è. […] Negli ultimi cinque secoli, da quando la stampa di Gutenberg ha reso popolare la lettura, la mente lineare, letteraria è stata il fulcro della nostra società, dell’arte e della scienza. Duttile e penetrante, è stata la mente ricca di immaginazione del Rinascimento e la mente asettica e razionale dell’Illuminismo, la mente piena d’inventiva della Rivoluzione industriale e anche la mente sovversiva dell’epoca moderna. Presto potrebbe diventare qualcosa che appartiene soltanto al passato.

Del resto, a proposito di intime confessioni, io per primo, per scrivere questo articolo, ho consultato non so quante fonti ma devo essere sincero: molte non le ho lette per intero, le ho scorse velocemente alla ricerca di ciò che mi serviva, che faceva al mio caso. E questo certo dipende dall’impossibilità di leggere tutto, per ragioni di tempo, ma anche dal nuovo approccio che di fronte alla grande quantità delle fonti disponibili abbiamo dovuto adottare, forse semplicemente per difesa. E pensare che tra i miei libri fondanti ce ne è uno che si intitola Slow reading [5], così come è vero che ho sempre avversato, sì, è proprio il caso di dirlo, i metodi di lettura veloce. E oggi mi trovo a spulciare.

Quando siamo online, è inutile negarlo, un insieme di fattori favorisce la lettura rapida, il pensiero è come affrettato, facilmente distraibile e ne consegue che l’apprendimento è superficiale. Penso sia esperienza comune che mentre si scrive un articolo ci arriva la notifica di una mail (fosse una sola…), di un SMS, di un messaggio WhatsApp o che cliccando su un link, magari anche funzionale a quello che stiamo scrivendo, veniamo dirottati ad altro che ci distrae, ci allontana. Certo, la rete ci offre una grande abbondanza di informazioni apparentemente interessanti (spesso, ahimè, a guardarle bene, criticamente, più banali che essenziali), ma barattiamo questo guadagno con la perdita di concentrazione, di attenzione e con la frammentazione del pensiero.

Il quadro sopra presentato può essere davvero allarmante e condurre a cupe riflessioni. È anche vero, però, che i grandi cambiamenti nella storia dell’umanità hanno sempre incontrato resistenze e paure, interrogativi, anche tra le menti più illuminate. A proposito di scrittura, per esempio, Socrate si interrogava “sulla convenienza o meno di scrivere” e pensava che essa potesse essere un pharmakon (in greco, “veleno”) per la memoria: è Platone, nel Fedro, a ricordarcelo, citando il mito di Theuth (o mito di Thamus) [6]: Socrate racconta che Theuth, un’ingegnosa divinità egizia, si recò presso re Thamus, allora sovrano dell’Egitto, per sottoporgli le proprie invenzioni, consigliandogli di diffonderle presso il suo popolo, che ne avrebbe tratto grande giovamento. Quando Theuth propose a Thamus l’arte della scrittura, la divinità si espresse con queste parole: “Questa conoscenza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza”. Ma la risposta del re non tardò ad arrivare: “la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu non hai trovato il farmaco della memoria”.

Già allora, ci dice Umberto Eco in una rilettura del mito, Socrate stava esprimendo “una paura atavica: quella che ogni avanzamento tecnologico possa abolire o distruggere qualcosa che consideriamo prezioso, fecondo, qualcosa che per noi è un valore in sé stesso e ha un carattere profondamente spirituale” [7].

Per fortuna, la paura di Socrate si è rivelata fuori luogo e non è andata così se pensiamo a come la scrittura sia stata fondante per la nostra civiltà.

Potremmo poi ricordare, al di là dell’avvento della scrittura, numerosissime trasformazioni di grande impatto nella nostra civiltà e, se andassimo a vedere, rileveremmo come questi cambiamenti hanno sempre generato, oltre che entusiasmo e fiducia nel futuro, altrettante paure e resistenze: dalla macchina a vapore, all’elettricità, al treno, e chissà quante altre.

Solitamente, il loro impatto, alla lunga, è stato più positivo che negativo, dissipando le paure iniziali, e anzi queste scoperte sono diventate veri e propri volani di sviluppo.

Quindi, nessuno vuole demonizzare pc, tablet, cellulari, strumenti informatici o i molti cambiamenti che sopra abbiamo descritto, ma è indubbio che il loro impatto sulle nostre vite (e sul nostro cervello!) è enorme, anche per la rapidità con cui è avvenuto. Forse la portata di tutto questo non la stiamo realizzando appieno: è come se la stessimo subendo piuttosto che analizzarla criticamente, e non vorrei che questo potesse dipendere proprio dalla distrazione critica che questi mezzi comportano, dalla riduzione della consapevolezza di sé.

Conclusioni

Per venire alla domanda, al tema comune che muove gli articoli di questa pubblicazione, e cioè “dove sta andando il mondo” e – soprattutto – dove vorremmo (invece) farlo andare”, credo dovremmo proprio puntare su due parole: consapevolezza ed etica. Che poi, va da sé, non sono certo solo due parole, ma tutto un modo di essere, di vivere.

Consapevolezza vuol dire avere sempre coscienza di sé. Questi mezzi, i social in particolare, vanno sempre visti criticamente, usati con giudizio, occorre saperli controllare e non esserne dominati. È importante tenere un profilo discreto, valutando l’immissione di dati e informazioni personali.

E quanto all’etica, saper uscire dalla tentazione dell’individualismo, rischio molto alto, accentuato anche questo dai social e più in generale da molti strumenti informatici. Scrive Vito Mancuso in un testo quanto mai d’attualità (Etica per giorni difficili) [8]: “L’etica nasce da qui: sulla base del sentimento di un valore più alto dell’io, più importante del proprio interesse immediato”. È stupefacente vedere come ancora oggi certi principi di base vecchi di duemila anni siano di un’attualità impressionante per cercare di regolare il nostro vivere e soprattutto il nostro con-vivere, in una società molto complessa come quella di oggi. Marco Aurelio nei suoi Pensieri [9] raccomandava tre semplici precetti: Alterum non ledere (Non danneggiare gli altri), Unucuique suum (A ciascuno il suo) e Honeste vivere (Vivere onestamente) e più tardi Tommaso d’Aquino riassumeva così l’imperativo etico fondamentale da cui faceva dipendere tutto il resto: Bonus faciendum, malum vitandum (Il bene va fatto, il male evitato).

Però, non si vuole qui fare della morale, che certo non ci spetta. Anzi, è una tentazione che va evitata, specie se viene da chi – nato nel secolo scorso – non è certo un “nativo digitale”, non è cresciuto con questi strumenti, ed è naturale che possa avere delle perplessità in merito, o guardare con sospetto agli sconvolgimenti che producono nelle nostre vite.

Quel che è certo è che indietro non si può né si vuole tornare (innegabili, del resto, i grandi vantaggi che ne derivano) ed è ancora troppo presto per inquadrare in maniera certa, oggettiva, il loro impatto. L’importante è quella coscienza critica cui accennavo sopra, e vigilare l’evolversi di questi strumenti, capire quanto essi sottraggono alle nostre vite, al nostro essere “umani”.

Tiziano Cornegliani
Medical Writer

tiziano.cornegliani@gmail.com

Bibliografia

  1. Colucci R. Scrivere a mano:
    https://accademiadellacrusca.it/it/contenuti/scrivere-a-mano/8086
  2. DeLisi M., Vaughn M.G., Gentile D.A., et al. Violent Video Games, Delinquency, and Youth Violence. New Evidence Youth Violence and Juvenile Justice. 2013. Vol. 11 no. 2 132-142.
  3. Doidge N. Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello. Ponte alle Grazie, 2007.
  4. Carr N. Internet ci rende stupidi? – Come la Rete sta cambiando il nostro cervello. Raffaello Cortina Editore, 2011.
  5. Mikics D. Slow reading. Leggere con lentezza nell’epoca della fretta. Garzanti, 2015.
  6. Platone, Fedro, 274c-275b. Bompiani, 2000. Traduzione di Giovanni Reale.
  7. Eco U. “From Internet to Gutenberg”, conferenza alla Columbia University’s Italian Academy for Advanced Studies in America, 12 novembre 1996.
  8. Mancuso V. Etica per giorni difficili. Garzanti, 2022.
  9. Marco Aurelio. Pensieri. Mondadori, 1994.

© COPYRIGHT Illustrazione di Raffaella Cocchi per BRAINFACTOR Tutti i diritti riservati.

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