Il mondo va dove lo portano i sistemi formativi

Ragioni per rifondarli per ridurre le catastrofi, almeno per il proprio sé

Senza una qualche nozione di progresso verso la meta è difficile
far meglio di quanto fa il caso, che è privo di mente (Minsky)

Abstract

Si vuole sostenere che l’andamento dello sviluppo delle società contemporanee ha oscurato totalmente l’idea antica, ma non priva di una sua insita bontà, delle belle sorti e progressive per involversi nelle più oscure strategie di mantenimento del potere capitalistico o tardo imperialistico. Lasciando agli esperti dei fenomeni macropolitici le analisi di tale andamento, si prova a sostenere, in forma di minima moralia, che il mondo va dove lo porta il sistema di educazione contemporanea che è privo di meta, come il caso. Perché, giova scoprirlo, i sistemi di educazione si poggiano su una struttura preventiva, cioè preordinata dal caso. E, in quanto tale, è priva di intenzionalità formativa come, invece, è per le possibilità della struttura enattiva; che è azione percettivamente guidata dall’etica. E qui ci si riferisce, naturalmente, all’etica dell’Istituzione scolastica

Paradossalmente, abbiamo una scuola che mentre si gloria del suo impegno educativo, non si accorge che l’etica chiamata in campo non è l’etica dei grandi principi -enunciati nelle Indicazioni per il curricolo- ma soltanto quella di ogni singolo docente. Determinando in tal modo non una possibilità di avere più modelli a confronto, ma una miriade di contraddittori stili comportamentali che disorientano le nuove generazioni. Così stando le cose, tutto può accadere. Anche determinando in tal modo, nell’indifferenza prolungata, l’andamento del mondo, con i suoi ricorrenti disastri ambientali e nuove invasioni barbariche. Il Canone Arendt, che si suggerisce, può riaprire i giochi, perché supera il concetto di apprendimento come meta di mere conoscenze, perorando la capacità di saper distinguere il bene dal male e il bello dal brutto. Un sano viatico per l’andare del mondo.

Introduzione

Il mondo va dove lo portano i sistemi di formazione dei cittadini. Cosa vuol dire questa perentoria e comunque limitata angolazione? Che se da tempo abbiamo da annoverare solo disastri ambientali, con gravi ripercussioni sui livelli di vita delle comunità, con carestie drammatiche e aumenti di malattie, soprattutto dell’infanzia, e diffuse forme di epidemie che rivelano condizioni di vera impreparazione a farvi fronte, a cui si susseguono continue stragi in mare di migranti, in aggiunta a conflitti armati derivanti da mire neoimperialistiche, la domanda da porsi è del seguente tipo: dopo Auschwitz, le decisioni che sono all’origine di tante ulteriori, anche se diverse, catastrofi sono o no il risultato di elaborazioni mentali che hanno visto prevalere dati di conoscenza in quanto tali e non l’attitudine a distinguere il bene dal male e il bello dal brutto?

Se questo è lo stato delle cose -abbastanza semplice da constatare- non possiamo meravigliarci che il Mondo se ne vada in rovina, lasciandoci scioccamente meravigliati per quanto ci accade.

Tra i disastri che affliggono il Pianeta quello più gravido di conseguenze drammatiche è il dato della formazione delle nuove generazioni che – fatta qualche rara eccezione – vede replicare all’infinito le dabbenaggini orientate al successo personale a danno della sfera pubblica e degli equilibri omeostatici, quali “la sopravvivenza, la crescita e la possibilità di riprodursi” (Damasio 2018, p. 194) in contesto di pace.

Da quanto dura tale nefasta replicanza, vista l’entità dei danni subite dalle psicologie personali e che sono tali da non lasciare vedere il vedere?

Rita Levi Montalcini provò a datare tale fenomenologia, attraverso la quale la scuola si attardava a replicarsi stancamente, a circa cinquecento anni fa (Levi Montalcini, 2004); Pierre de la Ramée (1543, 1555, 1569 e Waddington 1855) ne individuò un vizio di origine più o meno nello stesso periodo: la replicanza delle nozioni era da ritenersi -come oggi si direbbe- come un vuoto a perdere. Ciò affermando, esaltava la funzione docente nella capacità di coinvolgere gli allievi in una lezione breve ma significativa, i cui sviluppi avrebbero dovuto mostrarsi nelle esperienze di laboratorio degli ateliers. Paradossalmente, quella di Pierre de la Ramée poteva essere una straordinaria anticipazione di una buona pratica del cosiddetto “Tempo pieno”, che però non si è voluto scoprire. Così il tempo pieno si è involuto in una estesa, spesso noiosa, secondarizzazione; quando invece la didattica in moduli, nella Primaria, avrebbe dovuto affinare i processi di apprendimento.

Perché tali ottuse volontà a non voler vedere il vedere?

È che la Scuola se rinuncia alle priorità delle istanze etiche ed estetiche incorre nella prevalenza delle conoscenze dei dati di fatto che creano solo uomini di fatti strumentali, incapaci di distinguere il bene dal male e il brutto dal bello. È questa la scuola delle ideologie volta a volta dominanti che non potrà mai seriamente mirare al merito e alle competenze non solo tecnico-specifiche, ma soprattutto a quelle competenze di pensiero, che nelle ricorrenti crisi ne impediscono lo sbocco in catastrofi sociali e personali.

Valore dell’imperativo omeostatico

Le catastrofi personali si innescano in presenza continuativa di eventi verso i quali non si posseggono strumenti per farvi fronte. Quali strumenti e a fronte di quali eventi? Eventi correnti non abbisognano di strumenti straordinari. La routine ci salvaguarda spesso dal cadere in crisi di percepita inadeguatezza. Sono le situazioni straordinarie che talvolta bussano alle porte delle nostre elaborazioni mentali facendoci scoprire di non essere all’altezza di quanto ci perturba.

Ma è tale scoperta un vero atto di consapevolezza? Intanto quali sono quegli strumenti che dovremmo attivare per dare risposte coerenti a quelle perturbazioni?

Come si fa a impedire, per esempio, che nelle ritornanti crisi la persona possa salvarsi dagli accidenti catastrofici, gravidi di conseguenze sulle psicologie personali?

Sono i valori etici ed estetici a dare forza al lavoro mentale di ricerca di ripristinare gli equilibri omeostatici (Damasio, op. cit.).

L’osservazione che gli equilibri personali delle omeostasi si generano anche nell’esercizio dell’essere uomini di dati di fatti è solo una similarità apparente. A giocare la partita decisiva è l’entità degli sconvolgimenti che minano alla radice certezze e che seminano lacerazioni. Allora la perorazione a rifondare si fa pressante.

I fini, come vincoli

Rifondare il sistema scuola comporta ritornare strutturalmente sulla questione dei fini in educazione, se è vero che serve qualche nozione di progresso per incamminarsi verso una meta (Minsky 1989). I fini sono mete di progresso a cui tendere e sapere come fare comporta impegno di lavoro attualmente estraneo alle prassi rituali del fare scuola.

Da qualche tempo tale questione sembra tornare in auge dopo decenni di silenzio, se non di fastidio per chi se ne occupasse (Cfr. Tiana Brunelli 2013).

Tuttavia, tale ritorno è in verità un’impresa vacua e insignificante proprio rispetto alla natura del tema. In breve: che senso ha perorare l’importanza dei fini in educazione se non si propone correlativamente, in stretta connessione, almeno una delle possibili vie di attuazione di quanto ivi implicato? E ciò riguarda la quasi generalità della pedagogia ufficiale. Anche quando si giunge ad ammettere che se “si dice che quando in una istituzione non ci si chiede più che cosa essa serva, quale ne sia la mission, la crisi diventa collasso.” (Susi 2000, p. 134).

Ma cosa si fa se l’istituzione cardine della formazione dei cittadini collassa? Si fanno latenti le catastrofi sociali, mentre quelle personali non troveranno ancore di salvezza se si dà per veritiera la predizione della Arendt (2009), per cui senza il background dei saperi connessi all’educazione etica ed estetica i destini personali si fanno decisamente precari e involutivi.

Il fatto è che per la nostra scuola “le essenze sono imbarazzanti. Perché non sappiamo dove metterle” (De Monticelli 2018, p. 91) E, infatti la scuola non sa cosa farsene di quelle essenze che sono le finalità per cui viene istituito il servizio educativo nazionale.

Allora se questa è la vera condizione, si pone o no il problema di una rifondazione del sistema scuola? E data la gravità delle crisi che attanagliano l’intero Pianeta si pone o no il tema stringente di una vera rifondazione dei sistemi formativi?

Se può apparire universalmente palese la risposta affermativa, nonostante comprensibili riserve, non si ammette il fatto che una simile operazione richieda una identità correlante tra scopo e progetto (Atlan, 1995, p. 237). E che, insomma, un’impresa orientata su mete, fini e scopi può condursi a condizione che si abbia consapevolezza di dover elaborare un progetto di grandiose proporzioni. Per il quale occorre l’assunzione di modalità di lavoro del tipo FMF (Aprile 2020): ovvero dei fini, mediante i quali selezionare i mezzi, per poi verificare l’andamento dell’azione educativa diretta ai fini.

Una tale opzione comporta la fuoriuscita dall’ingabbiamento nei programmi per mettersi alla ” ricerca di principi di organizzazione differenti che possano rendere conto dell’intenzionalità e della creazione di significati ” (Atlan, op. cit., p.239). Ci si trova di fronte alla possibilità di un’auto-organizzazione, cioè a un carattere non programmato, o non del tutto programmato, dato dall’aleatorio che però produce l’emergere di strutture e di funzioni “creando così le condizioni per una storia, che è specifica per ogni sistema perché prodotta dall’aleatorietà delle situazioni che ha incontrato.” (Ibid.).

Assumere l’incertezza come dono, nel dono dei vincoli. Tale è lo stato degli auspici. Ed è, una simile prospettiva, esattamente l’opposta a quella che comunemente viene ritenuta connessa ad una organizzazione didattica a caratterizzazione pedissequa e pianificata.

Come far fronte a una tradizione arcaica

Qual è, allora, una possibile nuova forma per il lavoro scolastico da cogliere con immediatezza, che travalichi però la semplicistica forma dello scrivere, leggere e far di conto di una tradizione, ora arcaica, che ha preteso per un tempo infinito, e talora ancora pretende, di assumere per finalità ultima ciò che è invece una strumentazione di base, senza la quale nessuna attività sensata della formazione dei nuovi tempi è possibile.

Occorre riferirsi, intanto, all’esercizio del pensiero sui dati di esperienza e soprattutto sulle produzioni della cultura della nostra civiltà. Una sintetica, ma robusta, finalità può provenire da chi a lungo ha riflettuto sulla vita della mente nella ricerca di ciò che è bene e bello di fronte alla tragedia della banalità del male che può essere prodotta da soggetti comunemente formati da istituzioni scolastiche distratte o incapsulate nella tirannia della casualità: “La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che […] è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé” (Arendt, op. cit., p. 289)

Appelliamo queste parole, per la loro intrinseca forza, come Canone.

Perché Hannah Arendt parla di vento del pensiero? Perché -si insiste- proprio di vento del pensiero”? Vuole forse indicare la continua produttività del pensare connesso alle consecutive folate di quel vento? In forza del fatto che il cervello è così combinato che continua a produrre pensieri su pensieri?

Ma qui per pensiero Hannah Arendt intende la produzione culturale del pensare e che per questo le sue parole valgono come canone esplicativo del fare conoscenza. Ma la conoscenza è sufficiente a rispondere a sé stessa? Insomma, il pensare che produce cultura ha che fare con la conoscenza? E tale conoscenza è sufficiente a generare la formazione dell’uomo della società contemporanea?

A giudicare da quanto accade intorno a noi, appare legittimo avanzare l’ipotesi che vi sia una insufficienza formativa dell’uomo contemporaneo. Le catastrofi si susseguono con ritmo sempre più ravvicinato e sorge il dubbio che ciò sia il risultato di un paradigma formativo per il quale i danni che produce ne impongono il suo superamento. Dunque, siamo di fronte ad un vecchio paradigma che deve venire a confrontarsi con uno nuovo.

Intanto, si potrà osservare che se il vecchio paradigma sia all’origine di innumerevoli catastrofi sociali e personali non si ha però la certezza che uno nuovo possa risolvere.

Il problema non è risolvere, ma quello di ridurre l’incidenza delle catastrofi e del loro ritornante ricorrere.

Insomma, in che cosa consiste il vecchio paradigma? E il suo effetto catastrofico? Le ragioni stanno nel fatto che la conoscenza prodotta è una conoscenza priva di pathos etico, che non crea emozioni e pertanto non forma quelle attitudini che aiutano l’uomo a distinguere tra bene e male e tra ciò che è bello rispetto a ciò che è brutto. Perché, a ben vedere, stanno qui, in tali mancanti distinzioni, le ragioni che producono le catastrofi, a partire da quelle sociali, collettive e che giungono a quelle personali.

Allora le istituzioni formative hanno o no il dovere di interrogarsi su tali fenomenologie, posto che queste abbiano un’origine in inadempienti e inadempiute distinzioni?

L’inattitudine a compiere quelle distinzioni etiche ed estetiche può o no essere dovuta al tipo di conoscenza, cioè agli atti del conoscere come quelli che si praticano nelle nostre istituzioni formative? La risposta è affermativa, stante la netta condizione esistente: tali atti conoscitivi non sono reali, ma un insieme di liturgie che provocano l’induzione di pure replicanze; e, in quanto tali, esse sono prive di linfa di qualità accrescitiva. Tale condizione è reale?

Se sì, occorre riorientare l’attività formativa in termini di contrasto col paradigma vigente; vale a dire: l’assunzione di etica contro casualità; di estetica contro stereotipia. Queste semplici antinomie contengono, se adeguatamente risolte, un potere formativo tale da ridurre il portato distruttivo delle ritornanti catastrofi sociali o, almeno, contengono la possibilità di salvaguardare la sicurezza personale di ciascun allievo. Quello che più conta è che nella distanza si ha un vero effetto di prevenzione di quegli eventi.

Ricominciare dal “Canone Arendt”?

In assenza di alternative, conviene provare una tale ipotesi. Ma come si può incuneare la portata del Canone con la forza dei vincoli formativi della Scuola, posto che tale forza sia riconosciuta come esistente e utilizzabile da docenti e dirigenti?

Per poter procedere nella ricerca occorre giocoforza dare per acquisita da parte docente e dirigente la forza dei vincoli formativi riportati sia nelle Indicazioni nazionali per il curricolo sia nelle mete incorpate nelle riforme che si susseguono, a partire da quella vigente, detta della Buona Scuola.

Non esiste una sufficiente letteratura che renda conto di tali assunzioni, che siano cioè conseguenti con quanto vincoli e mete comportano: loro rilevazione dai documenti istituzionali, interpretazione personale e collegiale, produzione concordata di test tesi ad individuare i bisogni formativi di una scolaresca rispetto alle competenze insite in ciascuna meta, scelte ed elaborazione di curricoli, assunzione della visione etica ed estetica con cui perseguire tutte le fasi di tali processi.

Appare del tutto evidente che simili processi comportano fasi di studio e ricerca, con bibliografie coerenti. Il fatto che in tal modo si profili una fatica erculea non legittima lasciare andare le cose per come vanno. Significa solo doversi interrogare, da parte di tutti, se tale fatica debba diventare oggetto di un nuovo rapporto di lavoro.

La Scuola in un’epoca di pandemia e di guerra

Occuparsi di Scuola in epoca di post Covid-19 obbliga a non eludere il senso di una tragedia dell’Umanità che è avvenuta e che probabilmente si farà replicante ad intervalli di tempo sempre più ravvicinati.

Una delle sciagure che insorgono come ripetuta ottusità dell’essere è la guerra mossa da una potenza mondiale a un modesto Stato come l’Ucraina, ridotta mentre scriviamo a un cumulo di macerie. Non si sa se chiamare la resistenza di questo popolo ad una aggressione come eroica, data la gravità delle sofferenze che stanno subendo.

Se esiste solo una minima condivisione che fenomeni pandemici e disastri ambientali e delle guerre siano in relazione causale con le scelte dell’uomo nel modo di gestire le risorse del pianeta Terra, Patria di tutti, occorre porsi con particolare urgenza la domanda se quel modo di gestire le risorse del Pianeta sia in qualche rapporto con i costumi e le abitudini dei cittadini per come si sono formati, o vengono a consolidarsi in gran misura nelle istituzioni scolastiche, e che vanno ad incidere fortemente nelle decisioni connesse alla cittadinanza attiva.

Se tale rapporto esiste, deve porsi la domanda che ne consegue: le conoscenze che la scuola dà sono in grado di alimentare una morale intesa, prima di tutto, come capacità di giudizio adeguata a siffatti problemi?

Prima di rispondere, occorre porre un accenno a una questione che oscura il campo della percezione di minima di quanto ha a che fare con l’attività del pensare in epoca ancora carica di effetti Covid-19 e di guerra. Se è vero che, l’aver posto -per il Covid-19- severi limiti ai movimenti delle persone ha generato panico diffuso nelle psicologie personali, ne deriva che anche il pensare è compromesso nelle sue funzioni e articolazioni logiche. Infatti, che dire delle tante solitudini? E delle solitudini dei rifugiati ucraini e di tante guerre dimenticate?

A tali solitudini, con cui ci abituiamo a convivere, occorre dare una risposta. Prima ancora di pensare ad un sostegno psicologico, sempre di grande utilità, è saggio lavorare per prevenire o ridurre l’impatto con situazioni che suscitano disagio: attrezzare le nuove generazioni -che vedranno probabilmente altre crisi di dimensioni non minori di quella causata dal Covid-19 e dalle ripercussioni dei fatti di guerra- a far fronte a tali sfide.

La scuola attuale è in grado di superare il suo antico vizio di considerare la conoscenza per la conoscenza o è in grado di formare attitudini in grado di affrontare ricorrenti drammatiche crisi? Si insiste: come quella dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Imponenti distruzioni, massacri, lunge colonne di rifugiati, masse di bambini sottratti all’esperienza serena della loro crescita. C’è silenzio e allarme nelle persone pacifiche del Pianeta. Giudizi i più diversi confluiscono nella condanna dell’evento disastroso. Alcuni giudizi rasentano l’essere puerili come quello dello scrivente che parlando con la fornarina che gli pesava il pane, azzardava una frettolosa conclusione: oltre le colpe politiche c’è il fallimento della scuola: l’educazione sul pianeta non ha educato. Bisogna ricominciare daccapo.

-Oh, no! Fu la disperata risposta della fornarina, che strinse a sé la sua bambina dietro il banco.

-Maledetto il mio vizio pedagogico di voler sempre fare qualcosa! Disse a sé stesso lo scrivente.

La scoperta del “danno scolastico”

Nel mese di ottobre 2021 vi è stata una denuncia svolta con il libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (Mastrocola e Ricolfi, 2021). Su tale denuncia, pure molto fondata, occorre porre qualche rilievo, non tanto per esigenza di integrazione dell’analisi, quanto perché il quadro drammatico che ne emerge impone la ricerca di una chiamata in causa di tutti.

Quando si parla di scuola, chissà perché, si trascura sistematicamente la sua mission, cioè la finalità per cui esiste il servizio pubblico di istruzione e educazione.

Verrebbe da rilevare subito che la noncuranza verso l’attuazione delle finalità formative, pure espresse esplicitamente nei testi delle riforme, abbia causato il deviante abbassamento dei livelli di rigore verso lo studio. Il che avrebbe determinato un effetto letale rispetto alle intenzioni salvifiche del Legislatore.

Insomma, tutta la legislazione intervenuta con l’avvento del progressismo scolastico, avrebbe spostatoin basso i doveri di studio degli allievi, quando essa -a ben vedere- prefigurava un’organizzazione didattica che consentisse a tutti la comprensione dei saperi. Sennò su che basi insorgerebbe il desiderio dello studio personale di approfondimento?

In attesa che si scopra la forza trasformativa insita nelle strategie di attuazione della mission della scuola, occorre chiedersi se esista una modalità didattica da recuperare che favorisca, nei termini della cultura contemporanea, le petizioni del rigore dello studio poste da Mastrocola e Ricolfi, a cui corrisponda prioritariamente il rigore professionale della lezione docente.

Una risposta sintetica, ma fondata secondo civiltà della cultura, è quella derivata da Hannah Arendt, su riportata. L’attitudine ad operare quelle distinzioni comporta una formazione e una capacità di analisi di alto livello, in cui giocano quelle dimensioni di saperi forti dei quali si è andata perdendo l’acquisizione. Forse anche perché non vi erano state costruite strutture di valore a cui agganciarsi.

E sono queste che possono far superare quelle dimensioni di neutralità del rapporto docente-discente della tradizione che portava -nell’era della sua massima espansione- anche a condizioni di permanente angoscia, o di terrore, ammesse da Mastrocola.

La casualità con cui la tradizione le ha trattate ha determinato fenomeni di discriminazione, costituendosi in educazione costrittiva. Mentre il progressismo scolastico, non avendo saputo far di meglio -per mera paura di somigliare al suo versante opposto- ha caratterizzato la didattica in forme lasche.

Allora, tentare di rifondare il sistema scuola diventa una sorta di imperativo per tutti, stanti i vincoli valoriali della mission della Scuola, che sono quelli della Costituzione della Repubblica Italiana.

Il problema del bello e del bene

È nel vento del pensiero che si può cogliere il bello e il bene. Le tradizioni didattiche hanno molta più familiarità a stimolare la comprensione di atti o eventi che hanno dimensioni etiche rispetto a fatti o prodotti dell’arte. È più usuale affermare che una determinata condotta sia moralmente condivisibile, in quanto buona, o viceversa. Mentre risulta più difficile da parte docente seguire il giudizio estetico dell’alunno su quel quadro mostrato in diapositiva. Insomma, se quel quadro sia veramente bello o brutto è questione che va sospesa, in attesa di darsi una qualche strategia.

Resta il fatto -secondo le neuroscienze- che sono le emozioni ad essere alla base della capacità ad emettere giudizi etici od estetici; la qual cosa implica -prima di tutto- una coscienza desta; insomma “un senso di sé richiede emozioni: se le cancellate, lo studio della consapevolezza diventerà vano e vuoto.” (Koch 2007, p. 118).

Koch ricorda in tal modo Antonio Damasio con la sua teoria della coscienza estesa che superando la coscienza nucleare, dalle flebili conoscenze del qui ed ora, rende possibili giudizi ricchi di prospettive (Damasio 2000).

Così possiamo osare inferire che come per l’etica, anche l’estetica “non ha fondamento razionale ma emozionale” (Maturana e Dàvila, 2006, p. 86).

I fatti etici ed estetici, anche se sensoriali e istintivi, sono piaceri di ordine superiore (artistici, musicali, altruistici). Essi rappresentano una valutazione delle informazioni “elaborate lungo percorsi cerebrali specializzati che stimano il potenziale di ricompensa” (Kandel 2012, p.373). Dunque, è estremamente complicato per un docente educare a cogliere il bello, rispetto al brutto, prevalendo criteri inconsci di quanto attrae. Certamente vi sono elementi concreti di giudizio come la simmetria di un volto, venendo però questo a costituirsi in un vero e proprio pregiudizio bilaterale, anche se vi è chi sostiene che una “buona simmetria indichi buoni geni” (Ibid., p. 374).

Ma sembra che sia veramente lo sguardo, l’occhio, a cogliere i segnali visivi del bello e del brutto. E se sì, come educare sguardo e occhio a cogliere quelle due essenziali dimensioni estetiche? Certamente, occorre completare un’indagine empirica chiamando in causa il cervello. Non a caso, di alcuni artisti si è detto -come per Cezanne- che “per lui la vista si colloca più nel cervello che nell’occhio.” (Zeki 2007, p. 30).

Volendo in tal modo sottolineare che sguardo ed occhio non si limitano a registrare dati oggettivi, ma sono rilevatori di dati che vengono affidati all’elaborazione mentale.

Proprio l’elaborazione mentale si pone alla base della critica che va rivolta alla conoscenza quando disattende Il progetto estetico “che ci fa costruire e mettere in relazione quanto stiamo facendo secondo dei modelli che possiedono un loro fascino, che sembrano rispondere a certi giudizi di gusto. Insomma, anche se molte volte non ce ne rendiamo conto, una delle regole di base dell’apprendere è che ciò che apprendiamo deve piacerci, o per lo meno deve essere sistemato in modo che noi riteniamo piacevole.” (Fabbri 1996, p. 50).

In altri termini, la conoscenza che è prodotta dal vento del pensiero, come dice Hannah Arendt, deve essere l’esito di un’estetica del conoscere. (Ibid.) che va organizzata per produrre una didattica che superi il canone dominante che è di matrice preventiva, che disconosce sia l’induzione estetica da parte docente sia l’elaborazione del gusto da parte degli allievi, ovvero i tempi necessari di dove collocare, con la creazione di immagini, i dati ricevuti dall’insegnamento.

Al di là delle possibilità comuni di sguardo ed occhio, educare al bello sta nelle competenze docenti, ovvero nelle capacità a selezionare frame di curricolo che contengano detti contenuti da mettere in conflitto con le scelte esistenziali dei personaggi.

Interrogativi sull’aggressione all’Ucraina

Che dire dell’aggressione alla Ucraina da parte della Russia in questo 24 febbraio del 2023, un anno dopo, che ha lasciato le persone di buona fede interdette per la gravità delle ripercussioni sulla popolazione civile. Qui come ha funzionato la conoscenza delle classi dirigenti russe e ucraine? Hanno saputo distinguere ciò che era bene da ciò che era male? Sentenza ardua.

Tanto che solo nella forma di un Metalogo, alla maniera di Bateson (Bateson 1993), è possibile pervenire ad una sorta di non neutrale sospensione del giudizio, ma di fiera condanna dell’aggressione.

Metalogo

-Qui nous délivrera de Putin? La forza della resilienza, forse?

-La resilienza è qui termine sterile. Quel capitano di ventura non ha ostacoli

con la sua forza di sapere che ora è il più forte.

-Ma così è guerra aperta, una vile avventura che sta costruendo oceani di sofferenza.

-La domanda da porsi è chi ha il diritto di imporre così duri mutamenti,

a togliere il latte dalle tavole dell’Ucraina, dove i bimbi si attardavano la domenica mattina nelle gaie coccole.

Poi scaraventati nelle lunghe file dell’esodo, mentre nevicava il pianto delle mamme.

-Un appello a tutti i poeti avrebbe rivolto il mancante Pier Paolo Pasolini.

Che sia la poesia a seppellire coi suoi canti di vergogna il piccolo zar da salvare dal regicidio,

da consegnare però al giudizio della Storia.

-Si era detto che dopo Auschwitz non aveva più senso fare poesia.

Ma se l’annientamento del pianeta non è negli auspici di chi è aggredito

e pure mancanti sono Chaplin e Mel Brooks

E sempre più vili si fanno le quotidiane Guernica

mentre i filosofi si rintanano quiescenti nelle loro sicure cattedre

e i politici s’incatenano a improbabili vincoli

solo i poeti possono consegnare ai posteri

l’identikit di inettitudine del piccolo zar.

-Che sia l’ora della militante Poesia?

Intanto ricorriamo all’aiuto della scienza. Saper distinguere il bene dal male e il brutto dal bello sono, espresse sinteticamente e con altre parole, mega-mete del servizio pubblico di istruzione, educazione e formazione della Scuola italiana. Basta scorrere con un po’ di attenzione le Indicazioni per il curricolo o le Premesse ai programmi di ogni riforma della scuola. Altrove (Aprile, op. cit., pp.18-19), si è provato a farne una scaletta utile di tali mete, da tenere nel registro personale di ogni insegnante, a mo’ di memoria. Per ogni dirigente scolastico tale elenco potrebbe servire per dare direttive riferite a quelle competenze che la “Buona Scuola” gli attribuisce come atto dovuto, ma di cui in genere non sanno cosa farsene. L’indifferenza verso tali questioni rende possibile -come peraltro già avvenuto- ogni tipo di involuzione. A meno che non si voglia riflettere seriamente sul senso di un Canone come quello assunto dagli scritti di Hannah Arendt.

Intanto si consideri una forma sintetica di distinzione tra bene e male, riferita alla polemica con i no-Covid.

Metalogo sul bene e sul male

-Dimmi, maestro, cosa è per te il bene e cosa è il male?

-Che te ne importa del bene e del male?

-Vorrei capire: per capire chi ne parla continuamente…

-Di ciò che si dice molto non ti calare. Questioni di routine. Bada, piuttosto, a ciò che è importante rispetto a quello che non lo è.

-E le questioni del bene e del male non sono forse più importanti di tante altre cose?

-Diventano importanti se le intendi rispetto a qualcosa. Diversamente, staremmo a parlare all’infinito di cose astratte.

-Allora ti dico di un problema che mi disorienta. E non so cosa valga scegliere. Mi riferisco alle tante drammatiche discussioni per cercare di aumentare il numero dei vaccinati con l’antivirus. Ma i contrari non si muovono dai loro convincimenti, che pure sembrano legittimi, anche se avvolte mostrano aspetti esagitati.

-Chi ha deciso che l’antivirus dovesse essere somministrato a più persone possibili?

-Prima di tutto, i pro-virus dicono per evitare che le lunghe file di camion di bare si ripetessero fino allo sterminio di popolazioni intere. Ma è stata la pubblica autorità, con il supporto degli scienziati, a disporre la vaccinazione di massa.

-E questo è bene, non ti pare?

-No, perché in questo vi è un implicito dominio assoluto…

-A vantaggio di chi viene esercitato tale dominio?

-Intanto vi è un non rispetto delle volontà di chi rifiuta di vaccinarsi…

-Ripeto: a vantaggio di chi viene esercitato tale dominio?

-Non ti pare che un dominio assoluto sia sempre qualcosa di male?

-Non è certamente male per chi vuole mettersi in sicurezza rispetto al diffondersi della pandemia.

-Ma se vi è un implicito obbligo a vaccinarsi. Non è questo un porre limiti alla libertà di chi rifiuta l’obbligo?

-Si, ma solo perché chi rifiuta di vaccinarsi limita la libertà dei vaccinati, visto che per i vaccinati la tutela del vaccino non è di lunga durata. E se l’epidemia riprende il volo i look down saranno, come sono stati, necessari. E fino a quando siamo in grado di gestire -senza farci troppo male- questo gioco. Un gioco drammatico.

-Ci vorrebbe qualcosa che, senza ledere i diritti di chi la pensa diversamente, convincesse, in libertà, i no-vax a svolgere un ruolo utile per la collettività.

-Il fatto è che è difficile far modificare idee a chi ritiene che le proprie opinioni siano le più giuste. Insomma, che ha già deciso come stanno le cose.

-Il fatto più grave è che sono mancanti confronti interpretativi corretti. Anche nei migliori talkshow.

-Senti, senti! Non dirmi che ti sei fatta un’idea su questo. Che è il vero problema da affrontare se vogliamo dare uno sbocco a questa ottusa crisi delle opzioni.

-Maestro, ne parlo con te perché hai fatto una lunga pratica del confronto delle opinioni diverse e le più contrastanti.

-In qualche misura è vero. Ma una cosa è farlo in un’aula scolastica e altra cosa è farlo in piazza, dove è impossibile far rispettare un ordine degli interventi. E, per quanto mi risulta, non esiste un tale Superman che sia in grado di gestire processi così complicati.

-Forse uno studio televisivo a reti unificate potrebbe risolvere. Basterebbe un talk-show di un’ora al giorno.

-Verrebbe ad esistere sempre il problema di una rappresentanza adeguata dei due fronti. Ho sentito illustri scienziati sostenere che “l’uno vale uno” non può essere accettato, essendo il fronte della scienza classica, ufficiale, più consapevole dell’entità dei problemi in campo.

-Si potrebbe chiedere al fronte dei no-wax di esprimere un proprio numero limitato di esperti delle tesi che sostengono e lo stesso fare per il fronte dei sì-wax

-Purché non si trasformi in un’ennesima manifestazione da “bolla ricreativa”, insomma in un ulteriore fenomeno spettacolare. Tutte le reti dovrebbero rinunciare per questo agli incassi pubblicitari.

-Non credo che questo sia impossibile…

-Forse. Ma il vero problema sta nella conduzione dei confronti. In una istituzione scolastica il docente che gestisce il dibattito svolge una funzione non intrusiva, pur avendo come suo quadro di riferimento normativo o i valori riportati dal Piano dell’offerta formativa o i valori delle finalità istituzionali riportate nelle Indicazioni per il curricolo. Insomma, pur avendo come guida una tecnica dell’incalzare le diverse posizioni in nome di quelle linee istituzionali, non deve far emergere per quale dei due schieramenti parteggia.

-Si, tu usavi le linee di un gruppo che chiamavi normativo che aiutava il docente a condurre il dibattito…

-Hai idea che tra sì- wax e no-wax costituire un gruppo normativo sarebbe un’impresa disperata?

-No, se tutti accettano -e non vedo come questo non possa essere- la Costituzione della Repubblica e le varie dichiarazioni internazionali dei diritti dell’uomo, della donna e dei bambini. Oltre, naturalmente, ai documenti costitutivi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, come base su cui costruire le linee del gruppo normativo appositamente costituito.

-Ammesso che sia possibile far questo, come si potrebbe procedere?

-Bisogna ancora discutere sul fare questo. Su se sia praticabile l’idea di costituire un gruppo normativo formato da rappresentanti di si-wax e dei no-wax.

– Sono già emersi alcune figure significative dei no-wax nelle varie manifestazioni di contrasto alla politica vaccinale. E si sono espressi a loro favore alcuni studiosi dell’area medica e alcune voci di una intellettualità aperta a sentire le ragioni dissidenti. Vedremo.

Verso la Coscienza. Ma coscienza di che cosa?

È pertinente chiedersi in ambito dei processi formativi: coscienza rispetto a che? Ovvero rispetto a quali oggetti. Insomma, rispetto a che cosa. Proviamo ad elencare i vari domini rispetto ai quali si richiede di avere “coscienza” da parte di un ipotetico allievo in situazione scolastica. Contestualmente, appare opportuno dirsi cosa si intende per coscienza, tenendo in conto che ogni definizione, nell’ottica che qui si sta tentando di esplorare, deve riferirsi sempre rispetto a “un che”, o a “un che cosa”. Per esempio, avere:

-coscienza di essere un allievo e di esserlo rispetto a un team docente;

-coscienza di appartenere a una macro comunità, a partire da quella scolastica;

-coscienza di appartenere a una micro comunità, anche conflittuale, di pari.

Come può notarsi, ciascuna voce dell’elenco comprende un tale universo di consapevolezze richieste da entrare subito in conflitto con la visione di Dehaene a proposito dell’asserzione per cui può aversi coscienza di un solo fatto alla volta, imposto questo dalla fenomenologia del canale di accesso cosciente: “In ogni determinato momento i nostri sensi sono raggiunti da un massiccio flusso di stimoli; però la nostra mente cosciente sembra garantire l’accesso soltanto a una parte assai ridotta di questi” (Dehaene 2014, p. 41).

Spesso, infatti, la comprensione è apparente, agita per effetto, ad esempio, di nuclei del tronco cerebrale e del talamo in direzione dal basso verso l’alto. Questi nuclei, attivando forme attenzionali, danno l’impressione di avvenuto apprendimento o di apprendimento in corso. Ma è solo impressione. “Il locus coeruleus, per esempio, è un insieme di neuroni, localizzato in profondità nel tronco cerebrale, che invia un particolare neurotrasmettitore, la norepinefrina, a una larga parte della corteccia ogni volta che interviene un evento sollecitante che richiede attenzione.” (Ibid., p. 197). Insomma, una scarica di norepinefrina può renderci consapevoli di una percezione visiva o concettuale. Ma siamo, in realtà, solo in presenza di una vigilanza generica e non a fronte di una presa di coscienza. Una tale condizione ha poco a che fare con quello che Dehaene chiama l‘imparare. Perché è “come confondere il colpo del giornale della domenica contro la nostra porta di casa con il testo che veicola le notizie” (Ibid.) che quel giornale riporta.

La coscienza implica “una registrazione completa dell’esperienza del soggetto, con l’identico livello di dettaglio percepito dalla persona” (Ibid., p.198). Vale a dire che il soggetto dovrebbe saper codificare il contenuto soggettivo della percezione cosciente che è ad effetto stabilizzante.

Presumibilmente, il saper codificare il contenuto di un’esperienza visiva può valere, ferme restando specificità di processo, anche per le acquisizioni concettuali. Sta che avere coscienza di qualcosa comporta che questo qualcosa abbia il carattere della “stabilità”. Vale a dire che l’esperienza deve far acquisire i dettagli, quei “sottoelementi” del suo manifestarsi e che concorrono a determinare una specifica stabilità, sia pure di natura pro-tempore.

Insomma, un evento che richieda attenzione, tale da indurre l’emissione di neurotrasmettitori, ad effetto insight della comprensione, è coscienza o consapevolezza?

L’esperienza empirica di insegnamento registra almeno tre fasi di crescita graduale del fenomeno: comprensione, consapevolezza, coscienza.

La comprensione si riferisce a dati relativamente specifici, come quelli derivati da una lezione docente; la consapevolezza è l’inserimento di quei dati entro sistemi categoriali in cui assumono per questo pregnanza concettuale; la coscienza è l’inserimento della consapevolezza entro strutture di pensiero che danno organicità a quella pregnanza concettuale; tale per cui si ha il senso della esaustività della comprensione: che induce il desiderio per l’azione, che è desiderio di imparare; che è azione regolata da complessi processi cognitivi, ma anche azione come desiderio di esplorazione.

Risiede in questo l’essenza dei processi di apprendimento, compresa quella straordinaria dimensione dell’apprendere che è data dall’autoformazione, attraverso l’auto assegnazione di curricoli elettivi.

L’imparare di Dehaene può originare una rifondazione dei sistemi formativi

I contributi che le neuroscienze hanno offerto all’educazione nell’ultimo decennio del secolo scorso ed anche nei primi venti anni del terzo millennio sono molti; come molte sono state e sono le coacerve insensibilità a farne tesoro. Colpa di chi? Naturalmente, non ha nessuna importanza individuare responsabilità. Soprattutto perché sono mancate e mancano ancora le condizioni di base per le quali sia possibile inserire quei contributi entro strutture di pensiero militante dell’educazione.

Le preoccupazioni della Scuola sono desuete e le predominanti novità riguardano le tecnologie didattiche e le didattiche delle discipline, che sono solo una parte di quelle strutture di pensiero di cui hanno bisogno quei contributi per potersi coagulare in una progettazione che non sia “verniciatura” di una nuova ulteriore moda.

Beninteso, vi sono contributi di neuroscienziati, come Stanislas Dehaene, Mary Helen Immordino-Yang e Antonio Damasio, che forniscono potenti suggerimenti su come determinare apprendimenti efficaci delle nozioni. E questi creano sommovimento nelle tradizionali modalità di fare lezione.

Basti seguire con attenzione l’intera opera di Dehaene e, soprattutto, i suoi quattro pilastri dell’apprendimento (Dehaene 2019). Ma anche le ricerche della Immordino-Yang (2017), i cui esiti fanno da sfondo a ogni ipotesi di rapporto tra educazione e neuroscienze.

Il nucleo del problema

Riflettiamo su alcuni passaggi delle posizioni di Stanislas Dehaene. Tra le varie fasi dell’”imparare” si sofferma sulla necessità del consolidamento.

“Consolidare l’apprendimento significa rendere le risorse del cervello disponibili per altri obiettivi” (Dehanne, op.cit., p. 266). Cioè: “A mano a mano che il consolidamento avanza, l’attività prefrontale svanisce, a favore dei circuiti specializzati della corteccia ventrale parietale e temporale” (Ibid.).

Con tale strategia, Dehaene ci pone davanti ad un evento inaspettato: la perorazione della routine come necessità, a fronte della diffusa concezione “progressista” che ha sempre tentato il superamento della routine. Come la mettiamo?

Una spiegazione può essere la seguente: una cosa sono le pratiche routinarie, da non auspicare, altra cosa è l’apprendimento acquisito in intensità tale da costituire una sorta di “habitus cognitivo”: una pratica divenuta, in forza della intensità dei contenuti, routine.

Se è questo che “libera le risorse della corteccia” (Ibid.), l’apprendimento “routinario” derivato da prassi di consolidamento, ha funzione strategica.

A condizione che ciò venga fatto! E se ne controllino i confini.

Sta che Dehaene previene il rischio dell’effetto replicante della routine quando ricorre all’approfondimento; che non è perorazione quantitativa ma di aumento dei gradi di difficoltà, in quanto lo sforzo cognitivo –per esempio sulle parole del testo- genera un migliore apprendimento.

Ciò è dimostrato dal fatto che quella tensione cognitiva nelle aree della corteccia prefrontale forma “dei collegamenti potenti con l’ippocampo, che immagazzina le informazioni sotto forma di ricordi episodici ed espliciti” (Ibid., p. 220).

Ora se tutto ciò è grandemente plausibile, occorre chiedersi se tale aumento di difficoltà possa essere affrontato da tutti gli allievi di una classe, solitamente formata con criteri di eterogeneità interna, oltre che di omogeneità esterna, rispetto ad altre classi parallele.

Si potrà osservare che la professionalità docente è in grado di evitare un aumento delle difficoltà uguale per tutti e che pertanto tale aumento debba essere differenziato secondo livelli personali.

La qual cosa riapre il discorso sull’antica questione delle diversità personali. Anche qui Dehaene demolisce il problema. “L’idea che ognuno di noi abbia il proprio stile di apprendimento è un mito” (Ibid., p. 285). Lo dimostrano le tecniche di imaging nella similarità di funzione dei circuiti di apprendimento.

Tuttavia, Dehaene recupera la questione delle diversità in relazione “alla velocità di apprendimento e i gusti di ognuno” (Ibid.); per la qual cosa occorrono strategie adeguate a quei livelli.

Permane la condizione di base della “similarità”che vige nell’acquisizione di “tutti i fondamenti di cui avrà bisogno” (Ibid.) ciascun bambino. Insomma, in questa fase tutti i bambini hanno simili potenzialità di apprendimento.

I pilastri dell’apprendimento

La Neuropedagogia di Dehaene, qui così definita per il dominio di obiettivo riferimento della sua ricerca, si richiama a due livelli di rigore: quello relativo alle acquisizioni dei fondamenti e quello che riguarda le strategie di studio. Per entrambi i livelli valgono gli effetti di quattro pilastri dell’apprendimento.

Il primo pilastro ha valenza cardine, ed è dato da quanto può derivare dai processi attentivi, dall’attenzione; di cui vale la canonica definizione che ne danno le scienze cognitive: l’attenzione è data da”tutti quei meccanismi con cui il nostro cervello seleziona le informazioni, le amplifica, le incanala e le approfondisce” (Ibid., p. 187). In sede formativa, occorre chiedersi se i processi ivi attivati siano influenti proprio nella selezione, nell’amplificazione, nell’incanalamento e nell’approfondimento (gli altri pilastri) o se bisogna pensare che il cervello, automaticamente, agisca con queste fasi di transizione.

Per le neuroscienze educative (Immordino-Yang M. 2017), la risposta immediata è che certamente il cervello, indipendentemente dalla natura degli stimoli, operi selezione, amplificazione, incanalamento e approfondimento. Ma il grado con cui tali fasi si evolvono non possono non essere in stretta relazione con la natura e la qualità degli stimoli. Si presenta qui una delle ragioni per cui le scienze della formazione entrino in contatto con la ricerca neuroscientifica per gli interventi di competenza.

In altri termini, cosa può determinare la selezione di informazioni rilevanti? Non v’è dubbio che una lezione docente possa determinare questo. Ma lo fa in minima parte. Se dopo la lezione frontale il docente attiva su quella lezione –per esempio- strategie di ridescrizione rappresentazionale (RR), ne amplifica i contenuti e ne consente una selezione in forza di quella piramide di meccanismi attenzionali suscitati dalle rimemorazioni RR e, probabilmente, “organizzati come un gigantesco filtro” (Dehaene, op. cit., p. 188) Naturalmente non tutti gli allievi ricorrono a ritenzioni uguali: ciascuno “alloca risorse per le informazioni che ritiene più essenziali” (Ibid.).

Proprio questa dinamica di strategia attentiva, di selezione, di amplificazione di incanalamento nelle strutture categoriali e di possibile approfondimento chiama in causa l’educazione se è vero –come è vero- che queste transizioni “sono i segreti di un apprendimento di successo” (Ibid., p.186).

È l’antica petizione di Pierre de la Ramée e quella più recente di Rita Levi Montalcini. Perché queste attività consentono, talora anche per la spinta emozionale, le nozioni dalla parte bassa alla parte alta del cervello, in direzione talamocorticale, in generale; ma molto più frequentemente quei dati si coagulano nello Spazio di Lavoro Neuronale Globale (Dehaene 2014, p.221) in forza dell’attivazione di molte parti del cervello. Qui dozzine di processori locali condividono le informazioni codificandole e rendendole disponibili a una comprensione più profonda.

L’esigenza per un docente di effettuare interventi aggiuntivi dopo una lezione – per determinare quella comprensione più adeguata dei saperi- sorge dal fatto che confronti interpretativi tra pari o attività aggiunte di sviluppo laboratoriale dell’argomento, risolvono. E tutto questo può essere definito come attività modulare di ridescrizione rappresentazionale (Fodor 1988, Karmiloff-Smth 1995).

Perché è così rilevante la questione? Perché i primi dati ritenuti di una lezione si giacciono solitamente nei domini specifico, cioè in zona priva di comprensione adeguata; l’attività di ridescrizione consente di spostare quei dati in zona di fertili inferenze: nel domino centrale (Karmiloff-Smth 1995). Naturalmente, grazie alla tensione neuronale. In altri termini, e per usare le parole di Dehaene: l’attenzione (presumibilmente attivata da quelle ridescrizioni) rende i neuroni “più capaci di rispondere alle informazioni che riteniamo rilevanti, ma soprattutto aumenta la loro influenza sul resto del cervello” (Dehaene 2019, p. 195).

Insomma, l’attenzione modifica il funzionamento dell’attività mentale. Tanto che “Per imparare a leggere, solo l’allenamento fonetico, che richiama l’attenzione sulla corrispondenza tra lettere e suoni, attiva il circuito della lettura e consente di imparare” (Ibid., p. 199). Dunque, i sistemi attenzionali hanno funzione strategica.

Ciò consente all’educazione di dire la sua.

Il ruolo dell’Educazione

I sistemi attenzionali aiutano quelle transizioni ad effetto strategico, individuabili nella capacità docente di distinguere tra nuclei tecnici delle nozioni e nuclei valoriali in esse contenuti.

Perché vi è necessità di una tale distinzione?

Perché mentre per la comprensione dei nuclei tecnici sono consentite anche invasioni per sollecitare quell’”architettura generale del nostro cervello che […] facilita e accelera l’apprendimento successivo” (Ibid., p. 53), toccare i nuclei valoriali implicati nelle nozioni è opera assai difficile, dove più che mai “Imparare significa eliminare” (Ibid.).

Ed eliminare costituisce parte centrale della mission della scuola: che può essere sintetizzata nel perseguire un apprendimento profondo, versus apprendimenti quantitativi. Sta però che la nostra pragmatica scolastica “manca ancora di una comprensione profonda” (Ibid., p. 60). Ovvero, manca di strategie che rendano possibile quel tipo di apprendimento.

Che fare?

Da una parte occorre insistere per la comprensione dei nuclei tecnici di un sapere ricco di utili nozioni che aprano a una comprensione tecnica esaustiva, dall’altra è bene mirare a scoprire se quelle nozioni, o altre, possano contenere nuclei valoriali la cui interiorizzazione favorisca, rendendo “fertili” i dati acquisiti, un apprendimento profondo.

Resta latente una domanda: le nozioni apprese proprio nel senso della esaustività e della completezza mediante esercitazioni e vigilanza docente, in che misura farà distinguere l’alunno della convivenza civile dall’alunno che -uscito dalle nostre scuole- passa senza grandi drammi nelle fila delle associazioni a delinquere che utilizzeranno proprio i saperi di quegli alunni per meglio far svolgere quelle nuove attività?

Necessità di ricorrere soprattutto all’etica

La risposta non può che risiedere in una corretta chiamata in campo dell’etica: un vero percorso di guerra in educazione.

Resta, però, sullo sfondo, insorgente, l’ineludibile questione posta da Dehaene e che -pensiamo- sia implicita nella soluzione della denuncia del danno scolastico di Mastrocola e Ricolfi e che richiede affinamento dell’impresa didattica.

L’ esempio è dato da un testo le cui parole presentano talune difficoltà. Tali difficoltà devono essere risolte “senza che l’insegnante ci dia la soluzione [perché questo] genera un ricordo delle informazioni molto più forte” (Ibid., p. 220). La soluzione proposta da Dehaene è già Didattica Enattiva, nel senso che la comprensione, l’apprendimento, si fa mentre si fa. Non diversamente da quanto propose Abelardo in un noto passo (Epistola I, 8,9) a proposito della penetrazione di un testo, senza ricorrere a glosse talora fuorvianti che possono anche ostacolare la costruzione personale di un processo di senso; senso che sia però del testo in esame e non quello dell’autore delle glosse. Le quali possono essere utili successivamente al lavoro di indagine dell’alunno mediante confronto dei diversi dati interpretativi.

Il lavoro interpretativo chiama in causa prima di tutto l’attenzione ai dati di un’ipotesi di teoria a cui tende ogni lettore che si accinga all’opera: si prova a prendere coscienza dei primi dati ed è qui che i neuroni coinvolti attivano “scariche che si propagano alla corteccia prefrontale dove si produce un vero e proprio “incendio” di attività, le cui braci durano più a lungo dell’evento iniziale” (Dehaene, ibid., p.190). Mantenendo in memoria quei dati si avvia a configurarsi la teoria di Gadamer (Gadamer1983) del lettore interprete.

Il problema resta il seguente: quell’incendio” di attività, che ha il potere di modificare il valore delle sinapsi, così decisivo per l’apprendimento, chi lo deve innescare?

Lo può produrre il testo, se il testo è stato selezionato con criteri afferenti a una incendiaria teoria della selezione dei saperi; lo può produrre il docente se alla luce di quanto già fatto oggetto di selezione, si sia attrezzato per far vibrare preliminarmente i dati dell’evento critico; lo può determinare infine il confronto interpretativo tra i pari, qualora il docente si sia convinto a dover condurre in maniera non intrusiva il trattamento delle singole posizioni e riesca a porre in evidenza –senza mai propendere per nessuna di esse- i nuclei incendiari del tema.

Questo può realizzarsi –si insiste- se si assume una vera e propria teoria della selezione dei saperi per un curricolo motivato; ma anche della selezione dei dati prodotti dagli allievi e fatti oggetto di mirata attenzione perché senza indurre questa dinamica attentiva gli studenti “non hanno alcuna possibilità di imparare” (Dehaene, ibid., p.190).

Quando, Cosa, Come

Dehaene ci aiuta con la sua triplice prospettiva, sintetizzabile in “quando”, a “cosa” e “come” prestare attenzione. L’insegnante selettore di curricoli e di connessi contenuti non dovrebbe avere difficoltà a compiere tali operazioni. Ma il tutto può anche essere mandato “nella direzione sbagliata” (Ibid., 191).

Qui si separano le strade della condivisione. Dehaene tiene conto delle dimensioni neurofenomenologiche, e quindi altamente tecniche, ma –come dev’essere- le espone neutralmente. Nel senso che se davanti ad un evento minaccioso una serie di nodi sottocorticali ordinano “il rilascio massiccio e diffuso della serotonina, l’acetilcolina e la dopamina” (Ibid.) e queste raggiungono ampiamente la corteccia, un tale processo modula l’attività corticale e l’apprendimento, perché intervengono sull’attività dei neuroni inibitori della corteccia e liberano i sistemi di ritenzione.

Allora c’è da chiedersi cosa possa farsi in situazione formativa per attivare quei neurotrasmettitori che ora svolgono molto bene la loro funzione nei videogiochi in cui va migliorando la capacità di concentrazione (Ibid., p. 194). E qui Dehaene coglie un nesso che è autenticamente formativo: “un insegnante che riesca a coinvolgere i propri studenti, un libro che assorbe il lettore, un film o un’opera teatrale che trasportano lo spettatore, sono probabilmente segnali altrettanto potenti di una plasticità cerebrale attiva e vigile” (Ibid.).

Quel nesso deve però trovare una teoria dell’educazione che ne sostenga i passaggi. Perché è estremamente difficile nella scuola di massa reperire molti docenti con quelle capacità perorate da Dehaene. In quanto è dominante la “prigione” in cui siamo irretiti da un “flusso di informazioni [che] è guidato da algoritmi concepiti da […] imprese per difendere interessi finanziari, politici e sociali, come pure per influenzare i gusti degli utenti, e assicurarsi che rimangano dentro la loro bolla ricreativa” (Damasio 2018, p. 245) che tutto “deforma”. E l’impresa per i docenti diventa quanto mai impervia per coinvolgere gli studenti in quelle relazioni culturali ad alto potere formativo ipotizzate da Dehaene.

Urgono chiarimenti. Il primo è di rendere più esplicita la questione su posta da Dehaene che consenta quel coinvolgimento e “trasporto” degli studenti. Un insegnante che pianifichi unità didattiche coinvolgenti, che preveda l’uso di un libro che assorba il lettore, che scelga un film o un’opera teatrale che “trasportano” lo spettatore, non può limitarsi a una mera e rituale proposta asettica. Ma cercherà originalmente strategie che consentano quel coinvolgimento degli studenti entro percorsi di fascinazione culturale.

In altri termini, l’insegnante deve lavorare sullo specifico potere formativo di quella unità didattica, di quel libro, di quel film o di quell’opera teatrale, al di fuori di cliché. La qual cosa significa fare cultura mentre si fa la “cosa” educativa.

Ciò vale anche per indurre la curiosità, qualora la si volesse esplicitamente assumere come funzione da rendere Enattiva, cioè da far produrre in quanto “parte integrante della nostra biologia di uomo neurale” (Dehaene, ibid., p. 227) e che può trasformarsi in un potente drive, “una forza propulsiva che ci spinge ad agire” (Ibid.) e ad esplorare. Risiede in quest’azione dell’agire e dell’esplorare la condizione di base per un apprendimento originale ed originario che definiamo, sulla scorta di Francisco Varela (Varela, Thompson, Rosch 1992) Didattica Enattiva.

C’è da osservare che Dehaene non ha preoccupazioni enattiviste nel senso di Varela, nel quale l’azione è percettivamente guidata dall’etica. Le preoccupazioni di Dehaene -che scopre l’arretratezza del sistema formativo francese, ricco di insuccessi nelle rilevazioni internazionali- sono dirette verso la mancanza di esaustività degli apprendimenti; che restano incompleti, monchi, mancanti di esercitazioni corrette che tendano a far acquisire competenze, conoscenze. Indurre la voglia di conoscere implica attivare “il circuito della dopamina” (Dehaene, ibid., p. 228) e un insegnante neutralmente formato non possiede le competenze per tale tipo di impresa. Tanto più che “il grado di curiosità predice l’attività del nucleus accumbens e dell’area tegmentale ventrale, due regioni essenziali del circuito cerebrale della dopamina” (Ibid.).

La curiosità attiva queste regioni e il rilascio della dopamina determina il senso della ricompensa. Insomma, la curiosità predice l’apprendimento e il bisogno di conoscere ulteriormente costruisce i sistemi della “profondità”.

Dehaene, sulla base dell’imaging cerebrale, sostiene che “raggruppare i problemi in una sessione sola di lavoro riduce l’attività cerebrale” (Ibid., p. 258), mentre “La distribuzione dell’apprendimento, al contrario, aumenta l’attività cerebrale” (Ibid.).

Quanto rilevato da Dehaene impone una diversa organizzazione del tempo di lavoro scolastico che però resta nella tradizione, migliorandola. Nel senso che centra il lavoro nella memorizzazione evitando lo sterile immagazzinamento e, attraverso efficaci ripetizioni distribuite, si potenzia la memoria come fertile cassetta degli attrezzi per il lavoro successivo; perché la memoria “è un sistema rivolto al futuro e non al passato” (Ibid., p. 259).

Qui la petizione motivata di Dehaene si fa molto netta, giungendo a prefigurare un over-learning, un sovrapprendimento, richiesto dal modo in cui funziona il sistema cerebrale. Insomma, “finché la conoscenza non è perfetta, il cervello continua ad imparare” (Ibid., p. 261), o si protende verso di essa.

Una splendida esaltazione dell’apprendimento che sembra perorare un’altrettanta esaltazione della buona tradizione. Purché si tenga in conto che quell’apprendimento esteso, distribuito, fino alla esaustività dell’unità didattica giunge a liberare il cervello, che si fa disponibile ad altre imprese di conoscenza. Che però bisogna osare sperimentare.

Ed è qui che il neuroscienziato può prendersi una pausa e lasciare l’iniziativa alla scienza dell’educazione per gli interventi di competenza.

Se però la scuola, contravvenendo agli utili avvertimenti di Dehaene, passa intensivamente a successive unità didattiche accentuando l’immagazzinamento delle nozioni, quella cassetta mentale degli attrezzi si riempie e diventa difficile reperire in essa l’attrezzo più utile per affrontare questioni nuove. Quello che la tradizione, rivisitata da Dehaene, può ancora qui fare, è operare per il“consolidamento” finché diventi routine attiva, operante di per sé.

Qui “l’attività prefrontale svanisce a favore dei circuiti specializzati della corteccia ventrale parietale e temporale” (Ibid., p. 266). Insomma, si liberano le risorse della corteccia, che si rendono disponibili per lo specifico formativo della scuola.

C’è da osservare che se le metodologie tradizionali delle scuole delle democrazie dell’Europa utilizzassero le tredici avvertenze proposte da Dehaene, avremmo un “Risorgimento” delle istituzioni formative con ben altri risultati da quelli nefasti delle varie indagini (PISA, per la comprensione del testo, TIMMS per la matematica e le scienze e PIRLS per la lettura. (ved. Ibid. pp. 283-287)

Sta che nella scuola di massa non sono moltissimi i docenti che possono farcela a gestire la civiltà della proposta di Dehaene. Il rischio è quello di una ulteriore incentivazione del sovrapprendimento, talmente intenso da ingolfare l’elaborazione mentale dei bambini.

Si impone, allora, un correttivo che delimiti lo spazio del sovrapprendimento. È quello posto da Francisco Varela quando ci richiama nella ricerca all’azione percettivamente guidata dall’etica (Varela, 2000).

L’etica nella scuola non è quella del docente, ma quella implicata nei principi che orientano l’azione formativa delle istituzioni. Tali principi obbligano ad una scelta curricolare che è opera culturalmente libera ed atto dovuto, ma è opera del tutto ignorata perché sono mancanti, da parte della ricerca, di modelli applicativi condivisi.

Dunque, quella dei modelli applicativi dell’etica nelle istituzioni è impresa tutta da farsi. Diversamente, opere di generoso impegno, come quello di Stanislas Dehaene, di Mary Helen Immordino-Yang, di Antonio Damasio, e di tanti altri scienziati, risultano sistemi che si “aggiungono”, potenziando i difetti di una tradizione che deve, invece, rivedere i propri strumenti di lavoro, nel quadro di vincoli etici ed estetici disattesi.

Perché sono così decisivi tali vincoli? Perché anche proposte così pregnanti come quelle di Dehaene sono destinate a formare equamente sia il cittadino della convivenza civile che il dilapidatore delle pubbliche risorse. Quei vincoli, se osservati, ci dicono se il sovrapprendimento è confluito nel nozionismo o se ha fornito gli strumenti per l’esercizio negli allievi del giudizio critico, dell’autonomia di pensiero, e soprattutto se il soggetto sa distinguere tra solidarietà col gruppo e cedimento alle pressioni di quel gruppo. E tanto altro ancora.

Insomma, se si assume un certo numero di unità didattiche e queste vengono svolte con la metodologia proposta da Dehaene, ma selezionate con l’intento di mirare a far acquisire quelle abilità di pensiero critico, l’opera formativa può definirsi esaustiva dei vincoli istituzionali.

Risiede qui una delle possibili vie per cambiare l’andamento delle indagini internazionali, che pongono –per esempio- Francia e Italia in graduatoria offensiva per due potenze così rilevanti.

Ma il problema è ancora più serio. E riguarda l’osservanza di regole fondamentali per la gestione dei fatti educativi, le cui linee d’azione sono contenute nelle Indicazioni nazionali per il curricolo.

Tali regole, però, sono del tutto ignorate. Forse perché si ritiene, erroneamente, che queste debbano essere ulteriormente spiegate nei termini di particolare e generale: il particolare è costituito da unità didattiche, mentre il generale è dato dai principi educativi che costituiscono le mete. Nella filosofia della mente di Hannah Arendt viene chiarito un tale rapporto: “nessuna regola […] è provvista per le applicazioni della regola. Sapere come applicare il generale al particolare costituisce un ‘dono di natura’ supplementare, il cui difetto, secondo Kant, ‘ordinariamente si chiama stupidità, una deficienza a cui non c’è modo di arrecare rimedio’” (Arendt, op. cit., p. 151).

Tale “stupidità” crea però immensi danni, perché attrezza i cittadini a competenze limitate alla pura empiria. Allora è possibile che cresca “la tensione tra buona parte dell’opinione pubblica, che sembra informata come mai in passato, ma che non ha il tempo né gli strumenti per giudicare e per interpretare l’informazione” (Damasio, op. cit., p. 248).

Allora, visto che il soccorso dell’etica sembra necessario, come rendere possibile un rapporto tra etica e ricerca scientifica in educazione? La risposta è da ricavare da Maturana e Varela, a cui si rinvia: comunque sia, “Non si dovrebbe fare alcun lavoro scientifico senza riconoscere le sue implicazioni etiche” (Maturana e Varela 1985, p. 108), riferendosi alla domanda della conoscenza da parte del soggetto che conosce.

Senza questa preliminare condizione, l’educazione -nonostante l’esaustività tecnica dell’imparare- naviga nell’erranza. E si fa foriera di sciagure.

Perché rifondare il sistema Scuola?

Porre la questione di rifondare il sistema Scuola è di per sé un atto di arroganza. Non perché non se ne ravvisi la necessità, che semmai appare urgente a fronte dei disastri dovuti alle riforme che si sono susseguite con la cadenza di ciascun nuovo governo. Ed è pure arrogante affermare in termini così perentori il quadro di disastri fatto intravvedere nell’introduzione quale esito formativo del vecchio paradigma.

Ma che fare quando una condizione di gravità, peraltro ampiamente riconosciuta da tutti, ci pone sull’orlo di un baratro? Dare un urlo di avvertimento è la sola possibilità di essere utile al prossimo.

Rifondare, fondare di nuovo. Quale impresa normalmente visionaria! Eppure, non c’è alternativa allo stato attuale in cui versa la Scuola. Anche se il suo sistema continua a funzionare, vigente, malgrado tutto. La sua vita continua a scorrere con le sue cadenze e le sue scadenze. Ogni anno scolastico si presenta nuovamente come se tutte le lamentele si fossero esaurite o convertite in rinnovate speranze.

È questo che fa la grandezza della nostra scuola. Come uno Charlot che si risistema il suo logoro vestito e col suo bastoncino volteggiante si rimette in cammino. Così salvando masse di giovani non solo dalla dispersione, ma portandone alcune di quelle al successo; anche se ne condanna altrettante all’insuccesso, mascherato dalle sufficienze strappate penosamente nei Consigli di classe di fine anno.

Rifondare; sennò quale è la strada da percorrere se non quella di mettersi a cercare di nuovo?

Non c’è alternativa a quella ventilata impresa visionaria, nonostante il contesto globale e particolare di frammentarietà che rende indefinibile il nostro tempo, nel quale si fa evidente ammettere che esistono anomalie insanabili. Tra esse vi è il fatto che viviamo in un mondo guastato dalla follia del perseguimento esasperato dell’interesse egocentrico ed egoistico.

Il prevalente interesse egoistico e l’istanza cooperativa impongono il ricorso all’etica. Ma l’etica non è una scienza, né la si può insegnare (ved. Wittgenstein 1982, p. 24) mentre vi è la necessità di fuoriuscire da quelle micidiali ottemperanze formali, possibili solo se si abbandonano le vie della casualità del fare scuola, per farci carico di una transizione verso la scienza del fare scuola. Cosa fare?

Se l’etica non è una scienza è possibile però rendere scientifico l’induzione ai valori, il far sorgere il bisogno dell’agire etico o, almeno, del suo apprezzamento nelle condotte dei personaggi delle storie e dei saperi fatti oggetto di curricolo.

E già da qui, dal curricolo, dalla sua composizione di saperi, s’impone una selezione secondo valori etici implicati in quei saperi. Diversamente, a quali valori può fare riferimento la Scuola?

È che la petizione della Arendt offre, con autorevolezza culturale, una via fruibile all’esigenza che abbiamo di fuoriuscire dal vizio delle tradizioni scolastiche storiche, asserragliate sulla identità di pensiero e conoscenza. Nel senso che, per quelle tradizioni, l’educazione al pensare deve produrre conoscenza. Ipotesi di per sé condivisibile ampiamente, ma che comporta un drammatico sbocco: quello dell’incapacità di operare distinzioni delle dimensioni di valore. Dimensioni che, a ben vedere, costituiscono macro-finalità formative di tutti i sistemi di istruzione dei Paesi di democrazia avanzata. Cosa si aspetta ad intraprendere a sperimentare simili percorsi?

Non resta forse il fatto che siamo noi, ora, con le mete delle nostre Istituzioni, ad essere responsabili di dove sta andando il mondo?

Fortunato Aprile

Bibliografia

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© COPYRIGHT Illustrazione di Raffaella Cocchi per BRAINFACTOR Tutti i diritti riservati.

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