Siamo ancora in tempo a salvare i nostri figli?

Abstract – Mentre il mondo viene seppellito dai disastri fisici, psicologici e simbolici prodotti dal turbocapitalismo e dal dominio del neoliberalismo, ci si chiede quale sia il futuro possibile delle nuove generazioni. A fronte di una scuola schiacciata tra ipercognitivismo e professionalizzazione precoce e la sua atavica incapacità di offrire un’esperienza vitale ai suoi utenti, si prova ad avanzare la proposta di una società educante, capace di rivisitarsi radicalmente proprio rimettendo in circolazione bambini e ragazzi come attivi protagonisti della propria storia, della propria esperienza e forse anche di quella di tutti gli altri.

Esiste un filosofo contemporaneo molto appartato che ha scritto un testo piuttosto interessante. Si tratta di Baudoin de Bodinat e il testo in questione è La vie sur terre (1996), sottotitolo Réflexions sur le peu d’avenir que contient le temps où nous sommes.

Un testo importante, che, senza false illusioni, ci pone dinanzi al disastro contemporaneo:

“ogni mattina noi riprendiamo coscienza in un mondo un po’ più piccolo e soffocante del giorno avanti; gli orizzonti si sono avvicinati e noi ci accorgiamo che la loro maglia si serra sopra di noi; la volta del cielo si è ancora un poco più congestionata grazie all’ossido di carbonio, ai corridoi aerei, alle onde hertziane.

Ogni mattina la suoneria dell’orologio ci riconduce all’aria irrespirabile di questi pensieri ormai immutabili e aprendo le finestre ritroviamo il mondo ancora più appesantito di supermercati giganti con i loro parcheggi, di uscite d’autostrada, di banche dati, di spazzatura non biodegradabile; un po’ più ingombri di computer, di videocamere di sorveglianza, di sportelli automatici che ci danno del tu, di catene televisive specializzate, di fungicidi mutageni, di metalli pesanti, d’herpes, di cancri al seno, di emorragie intestinali; ogni mattina noi resuscitiamo in un mondo macchiato di petrolio che uccide gli alberi e si prosciuga, in cui la natura decrepita e degradata instrada i tifoni nelle zone temperate, in cui i voli charter del turismo di massa mettono fuori causa l’ozono atmosferico, dove gli istituti di pianificazione strategica preparano lo sfruttamento massivo del Canada e della Siberia grazie al riscaldamento della terra, in cui i pescherecci da traino informatizzati si disputano, tra la plastica e tutte le merde fluttuanti, gli ultimi tonni rossi avvistati tramite i satelliti.

Ogni mattina ci risvegliamo in un mondo che la maggioranza degli uomini non ha mai conosciuto che in questi tempi senza orizzonte, senza uno spazio terrestre davanti a sé in cui nulla ancora potrà essere scritto per molti anni” (37, trad. mia).

Il panorama umano, l’orizzonte del tempo che incombe su di noi è, in questo libro, descritto nei minimi particolari, con uno spirito di amara puntigliosità. Vi viene denunciata analiticamente la fine di una vita che non sia totalmente prevista, prescritta e guidata, di una vita ancora capace di affermarsi all’insegna del possibile e dell’imprevedibile, perché è ormai impossibile sfuggire alla pianificazione distruttiva che i sistemi di potere e in particolare e il capitalismo avanzato, il turbo-capitalismo, predispongono giorno dopo giorno per noi.

“Il dramma non è dunque più che oggi i mezzi più efficaci siano impiegati per i fini meno auspicabili, ma che tali mezzi capaci di guadagnare ogni giorno in efficienza e in potere demiurgico, siano concepiti specificamente al fine meno augurabile – la riproduzione e il continuo allargamento della dipendenza del genere umano dalla vita meccanizzata, fino al suo regno definitivo- e non possano assolutamente servire a null’altro; e che dunque per questo fatto la sopravvivenza collettiva si trovi automaticamente subordinata al buon funzionamento dell’apparato tecnico mondiale; nel quale tutti i mezzi si intrecciano inestricabilmente; in maniera abbastanza simile ai cibi congelati che presuppongono, per poter essere utilizzati, che la catena del freddo non subisca mai alcuna interruzione” (50, trad. mia).

Non è difficile trovare in questi accenti e brevi accenni, incarnati concretamente, elementi già ben preconizzati nelle analisi di tanti studiosi, da Marcuse ad Illich, alla più recente altrettanto drastica disamina di Yves Citton per esempio in Renverser l’insoutenable (2012).

L’insostenibile è ormai il nostro pane quotidiano si potrebbe dire e la radicale alienazione delle nostre vite, plasmata dai mezzi di comunicazione di massa, dal ciclo ininterrotto degli spot pubblicitari che ci inducono a consumare l’inimmaginabile (ormai quasi i soli ad essere perseguiti dai più), con il suo carico di spese inutili, è diventata globale e assoluta.

La controffensiva del capitalismo neoliberista dagli anni 70 in poi, come ha ben messo in luce Marco D’eramo nel suo Dominio (2023), è giunta al controllo globale. Spazzata via ogni alternativa possibile, grazie al presidio dei centri di potere, delle università che contano e dei sistemi di comunicazione, sembra non esservi modo di scampare un cul de sac in cui la catastrofe climatica, le diseguaglianze esplosive e una vita prosciugata di ogni senso ci spingono sempre più rapidamente.

Recentemente poi, l’emergenza dell’intelligenza artificiale fa immaginare che anche molte delle attività creative verranno progressivamente sottratte al dominio della mente umana per essere più docilmente consegnate a reti di programmazione e banche dati sapientemente manovrate per estirpare ogni possibilità di divergenza e autonomia.

Il quadro non è più semplicemente fosco, è tragico.

A questo si aggiunga l’ormai conclamata sindrome di autosfruttamento, ben sottolineata da Byung Chul Han ne La società della stanchezza (2012) quanto dallo stesso Citton:

“(il pensiero neoliberista) ci induce a gestire al meglio il nostro “capitale umano”, facendo di ciascuno di noi un “imprenditore di sé stesso. Si conosce ormai l’effetto schizofrenico e suicidario della pressione alla performance: è nel mio interesse (guadagnare in competenza, in premi, in visibilità) che io mi sfrutti e che mi metta sotto pressione (lavorando giorno e notte, il week-end, per poter completare un contratto, una partita, un rapporto, un libro)” (Citton, 2012, 90, trad.mia).

Non è più in gioco solo la distruzione dell’ambiente ma dell’uomo stesso, il suo burn-out (Chabot, 2014), determinato dalla pressione che l’ideologia neoliberale è riuscita in questi decenni letteralmente e inoculare nelle persone, sostenuta anche moralmente dal contributo delle psicologie positive e di tanta spazzatura new-age quando convince la maggioranza delle persone che la nostra salvezza è una faccenda individuale e che se non siamo felici è solo nostra la responsabilità. Il nostro fallimento, secondo il pensiero dei mille guru del nuovo stoicismo da bar, è determinato da scelte individuali sbagliate, dall’incapacità di vedere opportunità laddove vediamo solo vincoli.

Sul piano educativo tutto questo ha effetti catastrofici, non solo perché il mondo “costruito intorno a te” che la contemporaneità ci obbliga ad accettare sta chiudendo ogni orizzonte di alterità nella vita dei più giovani -già schiacciati dalla necessità di realizzarsi quanto prima, di professionalizzarsi precocemente ben al di qua di qualsiasi interrogativo sul mondo e sul senso del vivere-, ma anche perché l’incitamento paranoide al successo invade costantemente il loro orizzonte vitale.

Invece di poter sperimentare liberamente i molti versanti possibili che la vita potrebbe offrire, i giovani sono costantemente istigati a individuare quanto prima il proprio ingaggio produttivo, la propria autonomia e il proprio prezzo.

Da questo punto di vista la torsione produttivistica di scuole e università negli ultimi anni (ritardata solo, almeno da noi, dalla secolare arretratezza delle nostre strutture pubbliche), è un sintomo sempre più evidente che dovrebbe allarmare tutti coloro che abbiano minimamente a cuore la sorte della società ma ancor prima quella della vita stessa di chi, senza colpa e inerme, mettiamo al mondo.

Gli adulti tuttavia, non sono stati mai particolarmente sensibili alle necessità minime di una vita che essi stessi hanno portato sulla terra. La maggior parte sembra ancora ipnotizzata dall’idea fasulla che l’unica via per crescere sia quella dell’adattamento e che vivendo in una società repressiva e disciplinare, prima si avvia l’oppressione e il disciplinamento, meglio è.

L’incredibile (quanto vergognosa) cecità degli adulti verso i più piccoli avrebbe già da essere condannata per la connivenza con un sistema scolastico che da sempre è andato in rotta di collisione con le necessità vitali dei più piccoli (soffocamento dei corpi, delle libertà essenziali, della creatività, della sensibilità, delle emozioni ecc.) ma oggi sembra allearsi, in larghissima maggioranza, e secondo lo stesso criterio, con la perversa manovra che mira a rendere gli istituti di formazione delle fabbriche di sfruttati, imponendo l’avviamento precoce alle tecnologie, alla lingua egemone e ai modelli di produzione ben rappresentati nelle grandi multinazionali.

Celebrati una volta l’anno (per i loro anniversari) i grandi pedagogisti che avevano immaginato forme di educazione più attenti alla vita dei bambini e degli adolescenti (dalla Montessori a don Milani, da Freinet alla Pizzigoni) li si sconfessa poi allegramente con una didattica sempre più serva dei condizionamenti del sistema produttivo e con dispositivi di controllo così pervasivi che uno studente non può più neppure permettersi qualche trasgressione (arrivare con qualche minuto di ritardo per esempio) senza che i suoi genitori siano immediatamente avvisati elettronicamente.

La vita non è mai stata così deprimente per chi viene al mondo oggi. Orizzonti sempre più plumbei e ristretti, pressione al risultato spaventosa e impossibilità di trasgredire se non dandosi a sport pericolosi, alle droghe, all’alcool e alla violenza cieca.

Che fare?

A livello generale difficile a dirsi. Una catastrofe forse soltanto potrebbe smuovere i cervelli mummificati di chi programma lo sviluppo e la “crescita” in un mondo che purtroppo si è dilatato già oltre ogni misura sostenibile e che fa pagare i danni della sua ipertrofia a tutti i deboli (minori tra gli altri, insieme a vecchi, disabili, disoccupati, immigrati, senza contare i paesi del mondo saccheggiati dalla nostra “crescita” e che versano ora nella più radicale indigenza).

Nel frattempo, i programmatori della vita scolastica sembrano voler procedere imperterriti verso la digitalizzazione della scuola, confermandone la natura ipercognitivista e lo schiacciamento sulle esigenze del mercato del lavoro, anche venendo incontro alla presenza sempre più marcata dei privati nelle istituzioni formative per i minori e nelle università. La digitalizzazione inoltre, vista da alcuni a mio giudizio con poca distanza critica come un’opportunità, nasconde il pericolo tutt’altro che astratto che lezioni, letture e interpretazioni dei saperi vengano omogeneizzati in “pacchetti” uguali per tutti, realizzando il sogno perverso di chi vuole finalmente impedire che in quel luogo, già ben poco democratico, si coltivi almeno l’eterogeneità e la soggettività degli insegnamenti.

Per conto mio credo da tempo che la scuola vada progressivamente abolita e al suo posto vada pensato un sistema di educazione che ritrovi nel tessuto sociale nel suo complesso, i luoghi per rendere possibile ai bambini e ai ragazzi di sperimentarsi e avventurarsi in ogni piega della vita possibile.

I bambini e i ragazzi hanno bisogno di esperienza, non di materie scolastiche, hanno bisogno di fare corpo a corpo con il mondo (per quanto brutto sia e forse proprio per questo), in tutti i suoi infiniti aspetti, da quello economico, a quello ambientale, a quello politico, cercando (come mostrò bene già Baden-Powell) di divenire soggetti di servizio sociale e di creazione, nella danza, nel teatro, nella musica, nel servizio alla natura, riportando al centro il proprio corpo vivente.

Ho cercato, insieme a Giuseppe Campagnoli, di mettere a punto una proposta articolata sotto il nome di “educazione diffusa” (Mottana-Campagnoli, 2017, 2020, Mottana, 2023), che pretende di ereditare il meglio della tradizione pedagogica attivista e libertaria, dalla Montessori e da Illich fino alle esperienze degli anni 70 delle scuole di quartiere e dei maestri di strada.

In essa proviamo a restituire ai bambini e ai ragazzi ciò che è loro, il desiderio e la possibilità di vivere la loro crescita insieme a tutti gli altri, a contatto con la realtà e sfruttando le molte occasioni che un mondo pur così soggiogato ancora può offrire. In tal modo instillando in chi verrà a contatto con la loro stessa presenza viva e irrequieta (da tempo prosciugata da strade e quartieri e soffocata negli istituti scolastici) l’interrogazione che non ci si pone più su cosa significhi essere bambini e giovani in questo nostro mondo. E di come abbiamo inesorabilmente impedito loro di farne parte, costruendo città e strade dove la loro presenza è inibita in partenza. Ma anche di come essi, con il loro sguardo, possano finalmente avvisarci di quanto abbiamo trascurato il senso di un’esistenza ormai scissa, parcellizzata e rovinosamente accelerata. Del resto, è del loro futuro, compromesso in gran parte dalle nostre scelte, che devono appropriarsi e certo non possono farlo nel grigiore asfissiante delle classi scolastiche.

Sarà possibile? Non lo so. Ci stiamo provando. Molti genitori e anche molti insegnanti e educatori cominciano a svegliarsi dalla anestesia prodotta dall’introiezione del sistema scolastico come una sorta di “obbligo” imprescindibile, tuttavia è ancora una minoranza, bastonata dai provvedimenti per il Covid e dalle angherie di una scuola che sembra incatenata alle sue radici gesuitiche.

Il mondo va per il verso sbagliato, inutile fare finta di non vederlo ma non potendo stare fermi mentre l’idiozia avanza e soprattutto il disastro dell’ambiente stesso in cui viviamo, si cerca di produrre delle inversioni di tendenza, laddove possibile e “finché ce n’è”, come direbbe un celebre cantante italiano.

Paolo Mottana
Università di Milano-Bicocca

Bibliografia

  • Baudoin de Bodinat (1996), La vie sur terre. Réflexions sur le peu d’avenir que contient le temps où nous sommes, Ed. de l’encyclopédie nuisances, Saint Front sur Nizonne
  • Chabot P. (2014), Burn-out. La malattia del secolo, tr.it., San Paolo, Milano
  • Citton Y. (2012), Renverser l’insoutenable, Seuil, Paris
  • D’eramo M. (2020), Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano
  • Han B. C. (2012), La società della stanchezza, tr.it., Nottetempo, Roma
  • Mottana P., Campagnoli G. (2017), La città educante. Manifesto dell’educazione diffusa. Come oltrepassare la scuola, Asterios, Trieste
  • Mottana P., Campagnoli G. (2020), Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso, Terranuova, Firenze
  • Mottana P. (2023), IL sistema dell’educazione diffusa, Dissensi, Roma

© COPYRIGHT Illustrazione di Raffaella Cocchi per BRAINFACTOR Tutti i diritti riservati.

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