La scoperta di essere, allo stesso tempo, il danzatore e la danza… Considerazioni sulla Embodied Cognition

“Oh corpo che ondeggia alla musica,
oh brillante bagliore,
come possiamo distinguere
il danzatore dalla danza?”

W. B. Yeats

Il celebre poeta si sta rivolgendo a un albero, che per definizione percepiamo come immoto – eppure il suo fluire di rami e foglie si dipana nello spazio. Siamo esseri mobili, persino quando, con crudeltà, il movimento ci è in parte precluso o persino impedito; tutto in noi è una spinta al dinamismo, un anelito. Nella parola stessa “emozione”, c’è uno spostarsi: e-mozione.

E ogni gesto che questo impulso ci dà può incontrare e manifestare un concetto, ogni concetto può rimandare a un gesto. E lo si vede anche nel linguaggio, esso stesso emergente da una complessità in cui l’indiscusso ruolo del cervello può essere rivisitato per connettersi a una vastità di alto livello, perché si possa compiere pienamente un essere umano. Appunto: le espressioni linguistiche… si “accarezza” un pensiero, un’idea, un ricordo o, appunto, come poche righe fa, una citazione: ciò implica un entrare in contatto. E quanto conta, il contatto? A cosa porta?

Si parla molto di “Embodied Cognition” (EC), negli ultimi anni: “Coscienza Incarnata”, in italiano. È necessario precisare che, come per tutte le “rivoluzioni” e le visioni relativamente innovative (la prima comparsa del termine sembra risalire al 1996) (Zwaan R. A., 2021), si sono levate e ancora oggi vi sono numerose critiche e angoli irrisolti in questo approccio, così come è inevitabile il rischio di abbracciare con entusiasmo una visuale affascinante in maniera totalitaria.

Spesso, lo stesso termine appare nebuloso, almeno per quel che concerne l’aspetto scientifico, o, meglio, sembra essere applicato con vastità e dunque in maniera labile – laddove una maggiore precisione aiuterebbe studi e ricerche; altro nodo è il bisogno di “affidabilità e possibilità di generalizzare” per evitare che l’entusiasmo per la questione porti ad “apofenia” (Zwaan R. A., 2021), un bias cognitivo per cui si vedono correlazioni, collegamenti e significati dove in realtà non ci sono.

Una volta evidenziato ciò: qual è dunque il presupposto alla base delle Coscienza Incarnata? Siamo stati abituati a concepire il cervello, senza dubbio delicato e superbo regnante, come unico creatore del reame (e del reale), dell’esperienza, della percezione e della formazione di noi stessi. Eppure, per esempio, nell’antica medicina cinese, alcuni profili emotivi e cognitivi che consideriamo relativi all’encefalo vengono attribuiti a diversi organi. Ormai alle soglie di un’epoca che, almeno idealmente, sta abbandonando la dicotomia corpo-mente, e ascoltando gli insegnamenti della Fisica per cui un sistema isolato “morirebbe” di entropia, le EC ci spiegano un’evoluzione che implica l’esperienza in ogni sua forma, come derivante dall’utilizzo di ogni senso, dall’ambiente, con feedback e scambi continui in cui, quindi, il cervello non è il solo artefice; del resto, esso non è un’entità divisa dal resto, pura, perfetta e immacolata – non è, quindi, un sistema isolato.

Le EC sostengono l’importanza della corporeità nell’emergere degli aspetti cognitivi e nello sviluppo di esperienze e apprendimenti un tempo relegati all’attività cerebrale; la fisicità, le sue componenti sensitive e motorie sono attori che dialogano con l’ambiente, un ambiente esterno in contatto con un ambiente interno, in un organismo completo: è come immaginare un dialogo interattivo e costante che per facilità potremmo definire dentro-fuori, e nel quale, in un fluire multidimensionale, si impara l’esperienza, la consapevolezza, il pensiero, la sensazione e l’emozione, me stesso e l’altro-da-me, l’habitat che mi circonda e quello interno: è un esercizio che dura tutta una vita, in costante divenire, e da cui la nostra identità assume forma.

È un assunto che sfida il modello appunto dicotomico, ma che ben si sposa con paradigmi più complessi, come quello della Psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) o il punto di vista biopsicosociale. L’EC è di fatto un campo di ricerca interdisciplinare che va dalle neuroscienze alla psicologia, sino alla filosofia: un’ampiezza dove è facile che si verifichi dispersione.

Collegare l’astrazione della mente come dinamica sottoposta, in parte, a variabili di corpo, pare qualcosa di storicamente irrispettoso, quasi – per quell’atavica costruzione in cui la mente ha una sacralità eterea, e la fisicità ha imperfezione e una sorta di “bassezza”. A essere onesti, il punto di vista delle EC potrebbe in un certo senso farci sentire ancora più fragili: si ha bisogno di immaginare l’essenza di noi stessi come nucleo intoccabile (pur essendo in realtà assai mutevole), quasi granitico, insensibile agli insulti della materia. Se no come fare, quando ciò che è corpo non funziona?

E se invece, provando a cambiare prospettiva, si considerasse la Bellezza insita in questo panorama? Percepire che si tratta di un’apertura, uno spaziare, che è l’esatto contrario dell’istinto che potrebbe portare a vedere le EC come qualcosa di limitante, tutto contenuto nei confini della pelle. Invece, si tratta di osservare l’essere umano come un sistema inscindibile che si dipana da un centro, si allunga verso una “periferia”, la supera, andando oltre, in ciò che è esterno, come luce di candela – e ciò che ne viene è esperienza, che ritorna poi in me, alla fonte. Quanto si estenda nell’esteriorità, diviene questione altamente filosofica e anche spirituale…

Per cui nell’EC la corporeità, persino quando sferita, si fa strumento per coltivare una profondità, un “essere sé stessi”, un imparare e un prendere atto. Cosa si intende quando si afferma: “Ho fatto molta esperienza nella vita e quindi sono diventato quel che sono oggi?” Come è avvenuta questa esperienza? Siamo contaminati dal nostro esserci, continuamente. Quanto segue, se vogliamo, è una speculazione sulla moltitudine di tracce che paiono rivelarci l’Embodied Cognition.

Neuropsicologica-mente (e poi apprendere e ricordare e il gesto)

Prendiamo il caso tragico di una cerebrolesione. La neuropsicologia ha a che fare con immani drammi: ecco che, appunto, l’inestimabile cervello subisce un danno; può essere lento e causato da malattie neurodegenerative o di altro tipo (metaboliche, autoimmuni, giusto per segnalarne un paio); può essere una problematica del neurosviluppo; una concussione, che pare poca cosa inizialmente, ma delle volte non lo è.

E, sopra tutte, le cerebrolesioni acquisite, uno tsunami che si porta via, non di rado, nell’istante di un incidente, tutta una vita per come la si conosceva e per quello che si era. All’insulto iniziale subentrano complicanze secondarie, e i quadri possibili sono estremamente variegati, ma di rado tali da non riportare alla condizione precedente. Spesso ci si trova con importanti disabilità motorie e ogni sorta di alterazione cognitiva, emotiva e comportamentale – dalla paresi, al non sapere deglutire, al non ricordare il nome dei propri figli, all’atteggiarsi in modi inadeguati che non erano quelli che caratterizzavano l’individuo “prima”.

Talvolta non restano deficit visibili, e quindi si ha davanti qualcuno che appare “integro”, ma non è più sé stesso – le famiglie si sentono dire quanto sono state fortunate, vista la gravità dell’evento, e annuiscono sapendo che è difficile spiegare a chi non è accanto al paziente, che si tratta di una sorta di lutto. Chi si è amato è qui, ma non è più qui. In tutti questi incroci di nefaste possibilità, come si collocano le EC? Pensando alla riabilitazione di queste situazioni. Per che strade si passa, adesso che i ricchi viali che componevano l’umano sono colmi di macerie? Con che mezzi si riabilita, tenendo conto della fragilità del concetto di riabilitazione in questi contesti?

Perché la riabilitazione è assolutamente importante ed essenziale, anche senza poter fare miracoli. Semplificando, si identificano i domini danneggiati, le isole di funzionamento e si tenta, in team, di esercitare, potenziare, trovare strumenti attivi e passivi, stimolare… Ecco: stimolare. Ogni piccola abilità residua che può stimolare la plasticità cerebrale viene sfruttata, non solo in termini di compiti “astratti”, ma utilizzando tutti gli input sensoriali che possono condurre a una reazione, un nuovo apprendimento, un imparare daccapo. Dalla manipolazione al variegato ventaglio che attiva il nostro percepire ciò che ci circonda, passano informazioni per rigenerare, riportare nei limiti del possibile in superficie, insegnare.

Pensiamo al bambino che apprende. Al tocco della madre, così importante per il suo sviluppo – inteso anche come sviluppo neurobiologico, non solo in termine di psiche; l’importanza dell’”attaccamento” (Bowlby J., 1969) come fonte di crescita totale e sana anche in termini di apprendimento dell’esperienza dell’alterità, dell’emozione, dell’empatia. Il manipolare oggetti, l’assaggiare, il farsi un’idea del mondo nell’atto perpetuo dell’esplorazione. In uno studio interessante (Tsakiris M., 2017) si è sottolineato come i neonati, dipendendo dall’adulto per soddisfare i propri bisogni primari, contino su interazioni “incarnate” coi loro caregivers, imparando da esse peculiarità interne ed esterne al proprio organismo.

Oppure, prestiamo attenzione al nostro ricordare attraverso le vie sensoriali: un profumo d’adolescenza, che riattiva nel nostro cervello immagini e memorie di una persona, un luogo, uno stato d’animo; il potere estatico di una canzone collegata a un preciso momento saliente; uno scenario, delle volte una luce, il camminare in un luogo che ha familiarità, persino un modo di gesticolare, che riporta a qualcun altro.

Il gesto, appunto. “È il gesto che conta”, si dice; ma il “gesto” è di solito inteso come fisico, mentre l’“intenzione”, implicita in questo detto, è mentale. Il gesto immaginato costruisce un’intenzione, l’intenzione porta a un gesto, che può essere fatto di fisicità o metafora o entrambi, il che implica un agire (per cui un moto) e una volontà, una progettualità (per cui una prospettiva), un pensiero e, non di rado, una componente affettiva. Il gesto gentile del genitore, che abbraccia, e attraverso i ricettori arrivano messaggi, un ponte organico, psichico, neurologico e persino ormonale: e si conosce per poi riconoscere e dare il calore, la protezione, la tranquillità, l’amore.

Muoversi (e poi comunicare, essere nello spazio tra armonia, disautonomia, trauma e musica)

Siamo viandanti dentro e fuori. Come già scritto, il movimento è esperienza imprescindibile – così come quando il nostro dinamismo viene alterato e bloccato si disvela un diverso modo di percepire e percepirsi, e si fa dunque altra forma di dolorosa esperienza.

Consideriamo la postura e la mimica facciale: come non vedervi un continuo richiamo dentro-fuori, sino al dissiparsi del confine? Come non vederci l’ombra della EC? Nella nostra innata socialità, impariamo le norme che regolano le relazioni, a partire dall’imitazione alla capacità di leggere, al di là di variazioni culturali, gli stati d’animo di chi abbiamo davanti, di attribuirli, persino.

Delle volte, si sa, le apparenze ingannano, ma nella maggiore parte delle situazioni sono questi elementi palesi che ci permettono di navigare nella nostra dimensione interpersonale. Spalle curve e un atteggiamento dimesso, a seconda delle espressioni facciali, possono suggerire tristezza, preoccupazione, fino a disperazione, piuttosto che demoralizzazione, sfiducia e bassa autostima. Come viene consigliato di presentarsi, a livello comunicativo? Spalle diritte, sguardo diretto, testa alta, sorriso, braccio teso – come sono affabulanti, le strette di mano decise (“È impossibile non comunicare”, sussurra ovunque Paul Watzlawick).

Come ci si sente, quando l’atteggiamento fisico è obbligatoriamente schiacciato in una postura inadeguata? Quanto possiamo sentirci più fragili e in balia degli eventi, quando la corporeità è frenata, magari inibita da un problema momentaneo, non libera di esprimere? Ci si può avvertire esposti e a disagio, quando magari si è stesi mollemente in un contesto che si trasforma improvvisamente in formale, o ci si ritrova con un interlocutore imponente posto in una posizione fisica molto più in alto di noi – sgradite asimmetrie ancestrali. Pare un’osservazione semplicistica, ma questa situazione si fa senza dubbio dialogo interiore che passa attraverso la globalità del corpo, si propaga dall’esterno e torna in forma di feedback. Non a caso, si fraintende facilmente quando gli scambi avvengono virtualmente. È il famoso: “Preferisco guardare negli occhi qualcuno, quando gli parlo”.

Nello sconfinato citare (e scomodare) la EC, una delle sue rappresentazioni più affascinanti è, a mio avviso, la gestualità morbida e artistica. Inizialmente, abbiamo riportato dei versi di Yeats. Pensare a una ballerina, al suo rapporto intimo, sensuale, estasiato con lo spazio (e quindi col tempo) dà un’idea, al di là della Bellezza del momento, di come possa essere vissuto il viaggio umano esplorativo di quella persona, il modo in cui presta attenzione, cautela e precisione nell’interagire con l’ambiente: come si riverbera questo, nel suo modo di recepire le qualità “astratte”?

Un caso di ben altro genere, in cui l’atteggiamento motorio porta a un differente mentalizzare, è quello delle limitazioni del movimento. Un cervello che fa parte di un corpo con impedimenti del moto impara a calcolare i minimi spostamenti possibili come un tesoro da preservare: continue considerazioni per riuscire a raggiungere un punto, a prevedere ostacoli o problemi che non interesserebbero in situazioni di sanità. Come verranno concepite le distanze?

Potremmo affermare che, in questi casi, dei deficit portano a sviluppare un’intensa e continua attività di problem solving estremamente elastico e una maggiore tendenza, per cause di forza maggiore, alla minuziosa pianificazione e alla gestione di varie funzioni esecutive? A una maggiore considerazione prospettica; come, per esempio, ponendo attenzione all’ambiente, si è visto che i popoli che vivono in luoghi con scarsità d’acqua tendono a sviluppare una mentalità che porta a posticipare le soddisfazioni nel lungo termine per essere conservativi nel presente (Harati H., et al., 2023). Una geografica che modifica la mente. È stereotipo noto che la creatività si innalza sui terreni delle difficoltà.

Un ulteriore scenario, che arriva alla mente per associazione: le connettivopatie e gli stati ansiosi. Il tessuto connettivo, come dice la parola stessa, così pervasivo nel nostro organismo, ci connette in noi stessi e nel vivere: ci “tiene insieme”, mentre “funzioniamo”. Una sua alterazione in termini di lassità può portare a enormi rischi e fragilità: il movimento e l’azione devono essere cauti, bisogna tentare di “irrigidirsi”, “contenersi”. I difetti genetici del tessuto connettivo (ad esempio la sindrome di Ehlers-Danlos, soprattutto tipo ipermobile) sono di fatto associati a sintomi neuropsichiatrici di varia tipologia (Sharp H. E. C., et al. 2021).

Se in parte questo è chiaramente comprensibile a livello psicosociale, come ansia reattiva di fronte a una patologia complessa, poco conosciuta e che può avere un impatto invalidante, dall’altra parte ci sono anche fattori in gioco, in parte sconosciuti, in parte già sondati; come, ad esempio, le disautonomie, assai diffuse tra questi pazienti. Il mal funzionamento del sistema nervoso autonomo (SNA) porta a una pletora di manifestazioni (in quasi ogni funzione, sino alle intolleranze ortostatiche, come ad esempio nella “sindrome POTS”).

No, non stiamo andando fuori strada; stiamo, è proprio il caso di dirlo, “connettendo puntini”. Il SNA orchestra quel che noi possiamo quindi trascurare, dedicandoci al vivere. I sintomi psicofisici dell’ansia sono definibili come una disautonomia, in un certo senso, che però ha un senso, un compito importante, di preservazione, nel breve termine. Ma cosa succede se è una disautonomia – come uno stato iperadrenergico del corpo per riuscire a mantenersi verticale – a creare una condizione ansiogena?

Ovvio che un eccesso continuo di adrenalina nel tentativo di mantenere una pressione endocranica adeguata, porti a tachicardia, agitazione, sudorazione eccessiva; ma in senso inverso, rispetto a quel che ci aspetta, ossia un’ “ansia biologica” necessaria al fisico, che però, di conseguenza, manterrà uno stato di eccessiva iperattivazione che renderà a sua volta la sintomatologia psicopatologica più accentuata, in un fight or fly perpetuo (quindi un essere sempre in allerta, mai rilassati, per cui ciò che ci circonda viene percepito come minaccioso, faticoso). Anche questo è un caso (un poco arzigogolato) che credo spieghi bene come un’interazione dei messaggi corpo-mente possano alterare il modo di essere, vivere ed esprimersi, alimentandosi a vicenda.

Un corpo leso può, attraverso varie vie, alterare – dicotomia per spiegarsi – stati cognitivi ed emotivi e viceversa, creando in seguito un apprendimento duraturo, che può essere poco adattivo o, al contrario, brillante, nel coltivare sfumature altrimenti silenti. Oliver Sacks saggiamente notava come, alla fine del diciannovesimo secolo, si fosse andata delineando “una neurologia senz’anima e una psicologia senza corpo”. Non è ora di riunire tale sublime imperfezione?

E venga concessa un’altra parentesi, visto che si sta disquisendo di sensi, dato che ce ne sono di sconosciuti, che hanno il loro ruolo in questo torrente di Embodied Cognition: l’apparato vestibolare, la propriocezione e l’enterocezione. Se quando parliamo di sistema vestibolare sappiamo (pur non considerandolo come senso) che ci stiamo riferendo ad un sistema che ci consente l’equilibrio e l’orientamento spaziale per permettere una coordinazione adeguata, gli altri due sono meno noti. La propriocezione è l’insieme di quelle informazioni sensoriali che ci permette, senza neanche esserne consapevoli, di sapere in ogni istante dove sia collocato spazialmente il nostro corpo, il che è fondamentale per il muoversi in sicurezza.

Così come l’enterocezione, grazie ai “messaggi” dei vari tessuti, ci consente di percepire (e capire) cosa avviene all’interno del nostro corpo. La mediazione di circuiti cerebrali, con un ruolo essenziale dell’insula, fa sì che riusciamo a identificare e verbalizzare come stiamo, sino a dare un significato – interessante che questa componente di consapevolezza sia associata a stati sia prettamente fisici che mentali; infatti, un buon funzionamento enterocettivo implica lo sviluppo di un’ottimale regolazione di funzioni cognitive, emotive e sociali, mentre una disregolazione dello stesso porta anche a disturbi psichiatrici; quindi quest’ultimo sottovalutato senso – come del resto la propriocezione – sono componenti che hanno a che vedere con l’integrazione sensoriale, la coscienza corporea e aspetti di omeostasi e apprendimento emotivo.

Ciò ha profondamente a che vedere con il nostro senso di integrità, identità e col nostro rapporto con l’alterità, il confine e la distanza con l’altro, il modo di entrare in relazione interiormente e al di fuori. Questi sconosciuti sensi citati sono prova di un dialogo omnicompresivo di molteplici influenze, che proprio per questo dovrebbero trovare considerazione nell’ambito della presa in carico globale dei pazienti, nelle professioni sanitarie. Vagliamo, per un istante, il disturbo post traumatico da stress, e le esperienze traumatiche in generale: considerando le EC non è sorprendente che vengano non di rado affrontati attraverso terapie che implicano anche la corporeità – l’immagine, che tutti si ha, del soldato con PTSD, che sprofonda nei suoi terribili sintomi psicofisici sentendo un fuoco d’artificio che nella sua memoria innesta la pienezza dei ricordi dei rumori di esplosioni in guerra, con un richiamo potente e ingestibile. Questa è una totalità dissonante, che stride totalmente con la leggiadria della ballerina, o l’armonia del corpo nella musica.

E dato che siamo esseri musicali, cogliamo l’occasione per evidenziare come la musica ben si presti a essere esempio di EC. Mi torna in mente una bambina piccola, che doveva appena aver imparato a camminare, vista una sera d’estate, su un lungomare; in piedi, appoggiata con le manine ad una panca, incerta nello star su, si muoveva istintivamente al ritmo di una canzone. Questa arte (come tutte, ma lei in particolare), ci mostra un riflesso potente di EC: il corpo non è mai fermo, nella musica – anche se fosse possibile solo un battito di ciglia.

Il cantante segue col corpo gli alti e bassi della sua voce – le colonne sonore al cinema, il ritmo dell’azione sullo schermo e l’e-mozione che si vuole suscitare. La musica ha un potere di richiamo di emotività, vissuti, proiezioni nel futuro, liberazione fisica e trascendenza, che poco altro ha – oltre ad essere elemento che facilita l’aggregazione. Il corpo e la mente musicale alterano la loro chimica, e qui la conversazione dentro-fuori si fa canto e quasi manifesto di una Cognizione Incarnata, avviluppata da ciò che di ineffabile c’è in noi.

Stupefacente scoperta

Ci sono in queste pagine tante domande, vero: suggestioni per lo più. Ci si è lasciati andare sino a scivolare, disquisendo di Embodied Cognition. Le neuroscienze, oggi, si trovano ad abbracciare questo filone, che necessita di molto approfondimento e riscontri, e che ancora deve affrontare criticità e scetticismi da parte degli approcci neuroscientifici più classici. Forse nella loro ingenuità, le situazioni qui raccontate, difficilmente possono essere viste in una chiave dogmatica.

Ma la Coscienza Incarnata resta un campo che sta conquistando sempre più terreno, sta aprendo spiragli e portali, su di noi, nella nostra interessa, ed i nostri sensi. Alcune sue strade si riveleranno fallaci, altre, probabilmente, modificheranno il modo di concepirci, con svariate applicazioni, soprattutto terapeutiche.

A rifletterci, indubbiamente,
non possiamo negare
la stupefacente meraviglia
della scoperta
di poter essere, allo stesso tempo,
il danzatore e la danza.

Alessia Ghisi Migliari
Psicologa, Master in Neuropsicologia Clinica
Master in Psiconeuroendocrinoimmunologia
Formata in Psicodiagnostica

Bibliografia e sitografia essenziale

  1. Certosino E., 2017. “Enterocezione: l’ottavo senso”. Link: https://centroevoluzionebambino.it/2017/12/21/enterocezione-lottavo-senso/
  2. Cowart M., 2024. “Embodied Cognition, PTSD and Trauma Theory”. The Philophers’ Magazine. Link: https://archive.philosophersmag.com/embodied-cognition-ptsd-and-trauma-theory/
  3. Cox A., 2016. “Music & Embodied Cognition: Listening, Moving, Feeling, and Thinking”, Indiana University Press, Bloomington.
  4. Harati, H., Talhelm, T. (2023). “Cultures in Water-Scarce Environments are More Long-Term Oriented”. Psychological Science, vol. 34(7). Link: https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/09567976231172500
  5. Mason M. P., (2009). “Head Cases: Stories of Brain Injury and Its Aftermath”, Farrar, Straus and Giroux, New York.
  6. Musculus L., et al. (2021). “An Embodied Cognition Perspective on the Role of Interoception in the Development of the Minimal Self”. Frontiers in Psychology, vol. 12. Link: https://doi.org/10.3389/fpsyg.2021.716950
  7. Sacks O., 2001. “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, Adelphi, Milano.
  8. Shapiro L., Spaulding S., 2021. “Embodied Cognition”. Standford Encyclopedia of Philosophy. Link: https://plato.stanford.edu/entries/embodied-cognition/#EmboConc
  9. Sharp H. E. C., et al. (2021). “Connecting Brain and Body: Transdiagnostic Relevance of Connective Tissue Variants to Neuropsychiatric Symptom Expression”. World Journal of Psychiatry, vol. 11(10), pagg. 805-820. Doi: 10.5498/wjp.v11.i10.805
  10. van der Kolk B.,, a cura di Patti M. S. e Vassalli A., 2015. “Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche”, Raffaello Cortina Editore, Milano.
  11. Zwaan R. A., 2021. “Two Challenges to ‘Embodied Cognition’ Research and How to Overcome Them”. Journal of Cognition, vol. 4(1), pagg. 24. doi: 10.5334/joc.151

Fotografie di Alessia Ghisi Migliari (C) Copyright Tutti i diritti riservati

Be the first to comment on "La scoperta di essere, allo stesso tempo, il danzatore e la danza… Considerazioni sulla Embodied Cognition"

Leave a comment

Your email address will not be published.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.