Confini e violazione dei confini in psicoterapia ipnotica

Curiouser and curiouser… Non faccio ricerca sistematica in laboratorio per cui non ho dati da portare che possano riempire diapositive o immagini colorate di particolari regioni cerebrali che si attivano e stimolano la fantasia di essere vicini alla comprensione del meccanismo col quale funzioniamo come umani. Il mio laboratorio è la “clinica”, la mia ricerca è quella che conduco con i pazienti frequentatori del mio studio, che varcano la soglia, mi guardano curiosi, si accomodano un po’ spaesati e piano piano scoprono – magari per la prima volta – che è possibile funzionare in un modo diverso, insolito e cambiano l’espressione del viso, il modo di essere nel loro proprio corpo e anche da fuori si capisce che ne avevano proprio bisogno… Ma nemmeno si immaginavano come fare, prima d’ora, prima di avere una plausibile occasione di lasciar fuori tutto il resto dalla porta, dal loro corpo, dalla loro mente profonda, dal vuoto che qualcuno ha sentito di essere al primo colpo appagandosi pienamente in sé e per sé.

Pertanto parlerò di confini e violazione dei confini nel contesto dell’ipnosi, nell’intento di proporre più una serie di stimoli, di spunti per future ricerche, che una riflessione organica strutturata in una presentazione classicamente impostata. Ho iniziato a interessarmi a questo aspetto singolare della relazione terapeutica incuriosito da un fatto accidentale accaduto proprio all’inizio della formazione in psicoterapia ipnotica quando durante una delle prime induzioni didattiche su una collega a un certo punto mi blocco e non riesco più a proseguire. Che cosa succede? Lo sento, sento che sto per entrare “nell’intimo” di quella persona che mi sta davanti. Sento che sono prossimo a varcare un “confine”, un confine molto personale, con la sola voce, lavorando sui processi e rispettando il mondo dell’altra persona, i suoi tempi e modi di procedere nell’esperienza, ma proprio per questo, per questo allineamento rispettoso, sento di essere già entrato in un territorio “suo”, profondamente suo, pur restandomene fisicamente e diligentemente a distanza.

D’altro canto ho ancora vivissimo il ricordo di una delle mie prime esperienze con l’ipnosi, indotta sul gruppo da un valido docente, in cui semplicemente accogliendo le sue “parole” mi sento fisicamente trascinato in un flusso in accelerazione, come se tutte le cellule del mio corpo fossero attratte verso un punto lontano. Muovo di scatto le gambe proprio come si fa per frenare con tutti e due i piedi. Che succede? Come è possibile che con la parola si entra nel corpo di un’altra persona inducendovi effetti così potenti a livello fisiologico? In quel momento esatto ho iniziato a pensare che è proprio il corpo il crocevia, la chiave di volta della pratica ipnotica, per esperienza diretta in entrambe le posizioni. Per quanto ne so, non accadono queste cose nelle altre forme di “talking cure”. Con la sola parola pronunciata in un contesto ipnotico si può accedere all’altro attraversandone i confini sino al punto che la mia voce è la sua voce interna, una sorta di benefico “daimon” di socratica memoria, nel nostro caso eteroindotto (autoindotto nell’autoipnosi e mi vorrà perdonare chi storce ancora il naso quando sente questo termine), nel caso dell’ateniese “presenza divina, autentica natura dell’anima umana”.

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E’ Federn alla fine degli anni Venti del secolo trapassato a tentare una precisa definizione del concetto di confine come funzione dell’Io quale esperienza della psiche, una sorta di “metafora per distinguere l’interno dall’esterno e separare i sentimenti dell’Io cosciente dalle fantasie inconsce”. Negli stati di veglia e di interazione attiva con l’ambiente – dice Federn – i confini dell’Io sono forti e stabili mentre è vero l’opposto negli stati di affaticamento, di sonno, di riposo e ritiro; ma il modello paradigmatico della debolezza dei confini sarebbe l’esperienza schizofrenica, in cui non c’è demarcazione tra fantasie inconsce, memorie, realtà esterna. Sottolinea inoltre una distinzione fra confini esterni (che separano l’Io dal mondo) e confini interni (che separano l’Io dal non-Io interno cioè l’inconscio). Negli anni Quaranta Reich fa diventare concreto il concetto di confine arrivando a parlare di differenti “armature dell’Io contro i pericoli che minacciano dal mondo esterno e dagli impulsi interni repressi”. Negli anni Sessanta la Jacobson sposta il tiro sui “confini del Sé” concentrando la sua ricerca sulla demarcazione fra rappresentazioni del Sé e dell’oggetto attraverso le quali fonda la separazione tra esperienza di sé ed esperienza d’oggetto attraverso ripetute “fusioni e defusioni”.

Horowitz e colleghi psichiatri introducono poi il concetto di “spazio personale”, uno spazio che circonderebbe gli individui “proteggendoli dalle intrusioni nelle ordinarie transizioni interpersonali”, una sorta di “zona cuscinetto del corpo”. Negli anni Settanta alcuni ricercatori iniziano a voler misurare la “permeabilità” dei confini e lo fanno avvalendosi del Rorschach e di altri proiettivi; in “Ego Boundaries” (1970) Landis presenta i risultati di un ampio studio identificando due gruppi “alle estremità dello spettro degli sforzi coscienti per il controllo esterno e interno”: quello con elevata impermeabilità (I) e quello con elevata permeabilità (P), in cui cadono gli schizofrenici. Interessanti in particolar modo i lavori sui confini dell’Io corporeo nei pazienti psicosomatici in cui risultano avere confini “spessi” quelli con sintomi riguardanti pelle, articolazioni e muscolatura, mentre quelli con sintomi interni al corpo (coliti, ulcere, ecc.) fanno segnare punteggi da “confine di penetrazione”. Con “L’Io pelle” (1989) Anzieu descrive un concetto che fa riferimento a una specie di “involucro psicologico del corpo che separerebbe il Sè dall’oggetto”: per Anzieu i narcisisti hanno un Io pelle spesso, mentre masochisti e borderline decisamente sottile. In questo non va lontano da Sartre per il quale “il corpo è totalmente psichico, non è questione di anatomia”.

Ed eccoci ad Hartmann, che nel suo libro “Boundaries in the Mind” (1991) parla dei confini come di una “nuova dimensione della personalità”. Riprendendo l’antica distinzione di Federn tra confini interni e confini esterni, Hartmann definisce quattro dimensioni dei “confini della mente”: sottili/spessi, interni/esterni, che riscontra in un ampio campione avvalendosi di uno strumento specifico, il “Boundaries Questionnaire”. Da questo lavoro Hartmann conclude che un certo spessore dei confini interni è fondamentale per il funzionamento psicologico normale e che allo stesso tempo confini esterni sottili migliorano le interazioni sociali, favorendo la sensibilità personale alla realtà psichica dell’altro; viceversa, confini interni sottili possono indicare fluidità e mancanza di coesione interna, così come confini esterni troppo spessi sono generalmente causa di un atteggiamento di difesa, rigido e – nel peggiore dei casi – paranoide.

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Il buon Gabbard riflette in più occasioni su cosa debba considerarsi “violazione” e cos’altro “superamento” nel contesto della psicoterapia, nello specifico, della psicoanalisi. Ne emerge una difficoltà a tracciare un confine netto, a parte i casi di evidente “cattiva condotta” del terapeuta, che interessano poco niente il nostro discorso e restano sempre e in ogni caso deprecabili. Quello che è più interessante ai nostri fini è valutare se e in che modo un certo superamento dei confini possa essere utile alla terapia e benefico al paziente. A titolo di esempio consideriamo le complesse dinamiche di transfert e controtransfert, le “self disclosures” del terapeuta, la possibilità di incontrare il paziente al di fuori dello studio, la disponibilità a mantenere un contatto dopo il termine del percorso terapeutico, la non rigidità delle procedure o del “setting” clinicamente concepito, cioè durata della seduta, condivisione di momenti professionali e conviviali, possibilità di tornare in qualsiasi momento per un secondo percorso, ma anche la dose di “risonanza emotiva” all’interno di una relazione terapeutica “empatica”. Infine, ma non certo ultimo, il comportarsi del terapeuta in maniera “autentica” cioè essere sempre “se stesso” con tutti i pregi e difetti piuttosto che bravo attore professionista calato nel ruolo che rispetta un copione mediato dall’indirizzo terapeutico di appartenenza.

Di Erickson il professore Mosconi ebbe a dire: “Fiutava il vento e si muoveva come certi animali, apparentemente senza alcun calcolo, ma raramente sbagliava il traguardo”. A proposito di metodo lo stesso Erickson diceva: “Be your own natural self. Be yourself and develop your own technique”. E sono noti gli aneddoti in cui sembrava proprio uscire dal seminato invitando persone a zappargli il giardino o a scalare lo Squaw Peak o fermandosi a pranzo dai pazienti o conducendo sedute mandando all’aria qualsiasi parvenza di setting classicamente concepito. Del resto non serve ricordare che per “entrare nel mondo” del paziente dobbiamo essere disposti ad allontanarci – almeno temporaneamente – dal nostro, pena l’impossibilità dell’aggancio con l’altro, che a mio giudizio costituisce l’essenza del “rapport”, quella “particolare relazione” che il professore Loriedo definisce acutamente come “sensibilità reciproca selettiva”.

Ma allora, la psicoterapia ipnotica ha davvero intorno a sé dei confini? Mi spiego meglio. Dalla chiusura degli occhi in poi, la voce del terapeuta ipnotista che mano a mano diventa l’unica realtà fisica percepita dal paziente, poiché la voce è suono e il suono è un’onda che viaggia nell’aria e va a stimolare fisicamente il timpano meccanico per innescare una catena di eventi elettrochimici nel sistema nervoso dell’altro sino ad avere percetto e stimolo per una ulteriore successione di eventi ideodinamici… La voce del terapeuta – dicevamo – non ha già varcato i confini dell’altro, risuonando all’interno del corpo come risuonerebbe un diapason? E mi chiedo a questo punto dove sta la differenza fra trattamento fisico e trattamento non fisico, a questo livello ma anche al livello della catena di eventi assolutamente materiali che accadono nella persona che ben conosciamo come un certo rallentamento del battito cardiaco, una modificazione della pressione, lo spostamento dell’attività elettrica cerebrale dalle regioni anteriori di un emisfero alle regioni posteriori dell’altro emisfero, tutti fenomeni fisiologici non controllabili dalla volontà cosciente e assolutamente concreti, materiali, corporali… il cambiamento della temperatura corporea… ormoni… molecole…

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C’è un adagio che circola come un mantra fra gli psicologi italiani, che solo il medico può “toccare” il paziente, lo psicologo deve limitarsi ad ascoltare e parlare, perché l’uno può agire a sua discrezione con una terapia fisica e l’altro no. Beh, sembra ci sia qualcosa da rivedere da qualche parte. Lo psicologo Hartman del Milton H. Erickson Institutes of South Africa ci ha dimostrato in questi giorni che il tabù è caduto da un po’ nel mondo anglosassone. Per quanto mi riguarda e a scanso d’equivoci, a parte la stretta di mano del saluto convenzionale (che rientra nelle buone creanze del mondo occidentale) non entro mai in contatto fisico con il paziente, non utilizzo stimolazioni tattili né levitazioni agevolate del braccio, nemmeno ancoraggi corporei ecc. visto quel che si può “fare” con la sola parola modulata con accortezza.

A questo proposito mi sembra calzante quello che scrive il professore Facco nel suo ultimo ampio saggio di cui consiglio vivamente la lettura: “Meditazione e Ipnosi. Tra neuroscienze, filosofia e pregiudizio” (Edizioni Altravista, 2014). Sia la meditazione che l’ipnosi per Facco sono “attività indissolubilmente psicosomatiche, che consentono di accedere a livelli di controllo del corpo e della mente inimmaginabili”. In esse possiamo riconciliare la relazione mente corpo nei termini della capacità di “controllare con la mente funzioni somatiche inaccessibili alla volontà in condizioni ordinarie di coscienza, una sorta di fisiologia mistica” per dirla con Eliade. E ancora: sono “espressioni non ordinarie della mente in grado di aprire una diretta comunicazione con l’inconscio e con funzioni somatiche normalmente non controllabili volontariamente consentendone la modulazione”, cioè sistema neurovegetativo, vie del dolore eccetera.

Ora, questo accesso diretto all’inconscio via “NOME” (Non Ordinary Mental Expressions) o via “trance”, per dirla alla vecchia maniera, non costituisce forse un superamento del confine della “zona cuscinetto” della mente cosciente, opportunamente messa a dormire o “distratta come fa il prestigiatore”, per usare un’espressione del maestro Erickson? Quando “disseminiamo” in una conversazione apparentemente ordinaria, informalmente, non stiamo già tentando – all’insaputa della mente cosciente dell’interlocutore pena l’inefficacia dell’intervento – di inoculare nel profondo dei virus (buoni), meglio, degli enzimi di accelerazione del metabolismo terapeutico? Implicito nelle parole del professore De Benedittiis, neurochirurgo, psichiatra, anestesiologo, che l’ipnosi diventi “pratica di vita”…

Marco Mozzoni

La presente pubblicazione è la trascrizione fedele del manoscritto degli appunti che hanno costituito la traccia del mio intervento esperienziale “Confini e violazione dei confini in psicoterapia ipnotica” al IX Congresso della Società Italiana di Ipnosi (SII), “Embodied Languages. I linguaggi del corpo alla luce del contributo delle Neuroscienze e della Esperienza Ipnotica”, tenutosi a Orvieto dal 26 al 30 maggio 2015.

I disegni sono di Raffaella Cocchi. Hanno accompagnato il mio intervento quale unico contributo di immagine proiettata su telo. Della serie: “Alice in Mozzoniland” (2015); in ordine di apparizione: 1 Discesa; 2 Scoperta; 3 Parole parole; 4 Il tè dei matti senza matti.

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Marco Mozzoni
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2 Comments on "Confini e violazione dei confini in psicoterapia ipnotica"

  1. maria luisa ilardo | 22/04/2016 at 14:31 | Rispondi

    E’ vero che quando c’è una seduta d’ipnosi deve essere presente anche un medico?

    • No, non è necessario sia presente un medico. La psicoterapia ipnotica può essere praticata o da un medico o da uno psicologo, purché specializzati in psicoterapia ipnotica. In Italia la specializzazione in psicoterapia ipnotica viene conseguita dopo quattro anni post laurea presso una scuola di specializzazione riconosciuta dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR). Chi non è abilitato non può praticare psicoterapia ipnotica.

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