Segmenti di funzioni del cervello per l’educazione. Verso una Neurodidattica Enattiva

Si è più volte detto della necessità che la stimolazione didattica sia organizzata in scansioni che prevedano ad un certo punto del loro dispiegarsi una sorta di picco emozionale che conferisca all’unità didattica assunta potere formativo e non solo informativo (Aprile 2012). 

Ma formativo di che? E come può realizzarsi un tale esito? Ci si riferisce sia agli aspetti tecnico culturali specifici dell’argomento, sia alla comprensione più profonda del suo nucleo centrale o dei suoi nuclei policentrici; e a anche alla possibilità di una educazione ad una vita emozionale equilibrata. Questo è il limitato oggetto del presente scritto. Si devono intanto dare per intesi i sentieri avviati da Damasio (2000, 2012) su Emozione  e Coscienza, ma anche alle propaggini sul Sé e la Mente; da Rossi (2011) sulla Didattica Enattiva e da Rivoltella (2012) sulla Neurodidattica che costituiscono lo sfondo teorico di questi segmenti. Il recente libro di Davidson ne costituisce invece l’ossatura centrale.

Perché una vita emozionale, cioè una vita vissuta non burocraticamente ma che abbia non rari picchi emozionali, deve essere equilibrata? Richard Davidson risponde così: <<Per avere rapporti sani con gli altri è necessario essere in grado di percepire e di rispondere alle emozioni altrui>> (Davidson 2013, p. 343). Dunque, si può ragionevolmente inferire che l’educazione emozionalmente orientata può aiutare gli allievi a percepire le proprie emozioni e può portare all’assunzione di condotte conseguenti, da svolgersi sempre nell’orizzonte di un auspicabile equilibrio nelle interazioni.

Quali sono le dimensioni dell’equilibrio emozionale? Davidson sottolinea l’importanza della durata di un’emozione come indice della sua intensità, ma ne avverte anche la pericolosità. Ci si riferisce  alla capacità di essere resilienti, e cioè di saper reagire alle frustrazioni; ma <<il fatto di riuscire a superare in fretta una battuta di arresto e procedere oltre potrebbe [dare] l’impressione di una scarsa sensibilità emotiva e che ciò […] impedisca di provare le emozioni con l’intensità>>  (id.) giusta. Vale a dire in forma tale da non essere ritenuto dall’interlocutore come persona insensibile o superficiale, ma capace di provare empatia. Dall’altra, una lenta capacità a riprendersi non sarebbe indice di buona salute mentale.

 Come si vede, Davidson non si abbandona – dopo la messa in mora delle emozioni da parte del  Comportamentismo  e del Cognitivismo-  ad una assunzione viscerale di queste dimensioni. Il punto fermo è sempre quello di studiarne le basi neurali perché fondamentali per la qualità della natura umana e la comprensione profonda della mente. Questo è solo un assaggio della interessante teoria di Davidson dello ”Stile Emozionale” che può determinarsi mediante la cura delle sei dimensioni che la compongono: Resilienza, Prospettiva, Intuito sociale, Autoconsapevolezza, Sensibilità al contesto, Attenzione, ciascuna a caratterizzazione bipolare, lungo zone da stimare.

Questa prospettiva segna, dopo il lavorio Di Le Doux (2003), di Goleman (1998, 1999, 2003), ma anche –per aspetti diversi- della Nussbaum (2004) e di altri ancora, un più decisivo passaggio dalle neuroscienze cognitive alle neuroscienze affettive.

Lo Stile Emozionale

 Davidson inizia con l’assumere l’unità emotiva più breve e sfuggente, denominandola stato emozionale che può essere indotta dall’esperienza empirica, ma anche <<da un’attività puramente mentale>> (Davidson, op. cit., p. 9) e che tende a svanire.  Abbiamo invece stati emozionali che hanno durata maggiore quale lo stato d’animo o umore, come quando diciamo che qualcuno “è di  cattivo umore”>> (id.). La durata lunga almeno un anno di uno stato emozionale forma il tratto emozionale (id.) che è tipico del soggetto sempre irritato, scontroso, irascibile. Il modo con cui sperimentiamo gli stati emozionali, gli stati d’animo e i tratti emozionali fanno emergere il nostro Stile Emozionale che a sua volta ridetermina le unità emozionali che lo compongono. L’interesse maggiore sta nel fatto che le neuroscienze affettive si occupano dello Stile Emozionale in quanto <<governato da circuiti cerebrali specifici e identificabili, e si può misurare>> (id., p. 10); questioni queste scoperte per caso da Davidson mentre studiava le basi cerebrali delle emozioni umane, collaborando in  fasi alterne con Daniel Goleman. Il nucleo che mosse la ricerca organica sugli Stili Emozionali fu la scoperta in laboratorio che <<le persone differiscono ampiamente nell’attività  della corteccia prefrontale, un’attività associata alla felicità e all’apertura oppure alla paura, al disgusto, all’ansia e alla chiusura in se stessi>> (id., p. 27).

Sorprendente è la scoperta riferita al fatto che <<molti circuiti neurali alla base delle sei dimensioni si trovino lontani dalle aree cerebrali che in teoria dovrebbero governare le emozioni: il sistema limbico e l’ipotalamo>> (id., p. 106). Davidson sposta, in forza delle sue scoperte, il focus dalle sedi primitive delle emozioni alla corteccia prefrontale cogliendo una diversa funzione tra l’area sinistra e quella destra, oltre alla funzione di controllo esercitata sul sistema limbico e sull’amigdala. Seguiamo Davidson esemplificativamente su una di quelle dimensioni in cui si manifesta lo Stile Emozionale: la dimensione Resilienza.

Centralità della Resilienza

Davidson fa della Resilienza una componente primaria dello Stile Emozionale come studio sistematico delle basi neurali delle emozioni. Lo stile positivo di Resilienza sorge dalle capacità di scrollarci di dosso le sconfitte dell’esistenza, invece di esserne travolti; assumendo la capacità di attivare la determinazione ad affrontare una sfida emozionale, invece di arrendersi e di rassegnarsi, riconvertendo i propri atteggiamenti in un più modesto ruolo. O vi è di peggio: cadere in depressione o nell’assunzione di reattività violenti. Insomma si può essere rapidi nella ripresa dalle avversità o lenti in tale misura estrema da restarne compromessi nella capacità di scegliere alternative.

A questo punto è però necessario rendere più evidente l’avvertimento dei limiti insiti in una troppo rapida capacità di riprendersi dalle avverse sorti. Perché a <<una persona estremamente resiliente può mancare la motivazione per affrontare e superare le sfide, accettando ogni ostacolo con una metaforica alzata di spalle e un atteggiamento del tipo “non ci pensare e stai sereno”. Al contrario essere Lenti a riprendervi può impedirvi di rimettervi in marcia dopo una battuta di arresto, e continuerete ad arrabbiarvi e a essere ossessionati per qualcosa che ormai è un capitolo chiuso>> (id. p. 77). Come si vede, le questioni qui poste rivestono rilievo per chi deve pianificare gli interventi educativi, posto che abbia gli strumenti per rilevare e/o comprendere l’emergere di tali dimensioni di problemi. C’è, a tal proposito, da ricordare che Davidson fornisce alcuni strumenti che  – con opportuni adeguamenti – sono utili allo scopo.

Intanto c’è da rilevare che la natura svolge già di per sé un intervento compensativo per cui la capacità di ripresa  dalle avversità <<è in parte automatica [… perché] il cervello e il corpo attivano immediatamente meccanismi per ridurle e riportarvi al […] livello emozionale di base>> (id.). E ciò varrebbe anche per altre emozioni, riassumibili in quelle negative. Ma  è  bene sottolineare, dalla prospettiva educazionale, che la capacità di ripresa automatica dagli effetti   talora devastanti delle emozioni negative è solo parziale e che resta latente la possibilità di crisi esistenziali personali.

 La speranza di un  intervento educativo risiede certamente nel tener conto del naturale recupero automatico ma anche nel fatto che i <<cambiamenti possono aver luogo in risposta alle [altre]  esperienze che viviamo [… e] anche ai pensieri che elaboriamo>> (id., p. ), in risposta a quesiti posti    -per  esempio- nei confronti interpretativi tra i pari; e insomma nelle modalità in cui si articola lo studio e l’esperienza scolastica complessiva. Ci si riferisce qui alle possibilità di recupero dovute alla plasticità neuronale che si modifica in ordine alla stimolazione didattica e, in genere, dell’esperienza.

<<Questi cambiamenti comportano alterazioni del funzionamento delle aree cerebrali, l’espansione o la contrazione della porzione di territorio neurale dedicato a compiti particolari, il rafforzamento o l’indebolimento delle connessioni tra diverse regioni del cervello, l’aumento o la diminuzione del livello di attività in circuiti cerebrali specifici e la modulazione di neurotrasmettitori presenti nel sistema nervoso centrale>> (id.). Forse è bene qui richiamare l’attenzione e la responsabilità di chi organizza o contribuisce in maniera determinante ad attivare i processi formativi durante i quali lo Stile Emozionale può essere modificato proprio perché <<il cervello contiene le basi fisiche  dello Stile Emozionale>> (id. p.31). Da qui l’opportunità di avere presenti i correlati neurali di tali fenomeni per comprenderne meglio lo spazio di azione dell’intervento educativo.

Dalla parte bassa alla parte alta del cervello

Secondo la tradizione, le emozioni sorgono nella parte bassa del cervello che è anche quella più antica nella sua evoluzione: la parte limbica; ma <<le tecniche di neuroimaging mostrano al contrario un’attività biologica misurabile che ha luogo soprattutto nella corteccia>> (id. p.78), oltre che nel sistema limbico.

Che cosa avviene? Come agisce la corteccia prefrontale con il suo potere di gestire attività cognitive come la capacità di giudizio e di pianificazione? Negli esperimenti di Davidson vengono notati <<grossi fasci di neuroni che corrono da alcune aree della corteccia prefrontale  all’amigdala. L’amigdala, che svolge un ruolo nelle emozioni negative e nell’angoscia, è pronta ad attivarsi quando ci sentiamo ansiosi, spaventati o minacciati>> (id. p. 108). In altri termini, per Davidson la corteccia prefrontale sinistra inibisce l’amigdala e, attraverso questo meccanismo, facilita un rapido recupero dai problemi.

In questi esperimenti viene peraltro accertato che le persone con una maggiore attivazione della corteccia prefrontale sinistra risultano con alta capacità di Resilienza; mentre  la circostanza che la maggiore attività venga a svolgersi nella corteccia prefrontale destra segnerà nel soggetto osservato una bassa Resilienza. Il tutto si fonda sull’idea generale  che <<quando adulti sani provano emozioni positive o negative, un lato della loro corteccia prefrontale – rispettivamente il sinistro o il destro- si attiva [e] che lo stesso pattern è stato rilevato nei bambini piccoli>> (id. p. 71).

In questi fenomeni Davidson ritiene siano individuabili i correlati neurali delle emozioni. Connettendo il tutto ad atteggiamenti di avvicinamento od evitamento (cfr. id.)  perché <<ci sono buone ragioni per ritenere che ogni emozione ricada all’interno dell’una o dell’altra di queste categorie>> (id.). In altri termini, ogni emozione costituisce sempre una sorta di avvicinamento verso qualcosa o qualcuno o di sottrazione da qualcuno o da qualcosa. Quest’ultima rilevazione, insieme alle altre determinazioni, costituisce argomento quanto mai interessante per la pianificazione dell’azione educativa qualora questa si orienti verso le opzioni della didattica enattiva. Vale a dire di una progettazione che sia sensibile alle manifestazioni fini o, meglio, a manifestazioni per la rilevazione delle quali occorre dotarsi di strumentazioni raffinate, che vadano più a fondo delle macromanifestazioni rispetto all’osservanza o non osservanza delle regole di base della convivenza in una classe. Anzi, proprio queste manifestazioni, adeguatamente interpretate, sono rivelatrici  di stati emozionali che sono unità di base per comprendere lo Stile Emozionale di un alunno.  La qual cosa  significa – una volta rilevato quello Stile-  agire didatticamente per rafforzare o tendere a modificare la teoria della realtà che ciascuno alunno ha. Naturalmente l’azione tendenziale alla modifica degli atteggiamenti si legittima qualora quella teoria risulti disfunzionale rispetto alla teoria generale della formazione che ciascuna scuola ha il dovere di darsi e di tenere presente in tutte le decisioni dell’agire scolastico.

In altre parole,  lo Stile Emozionale rivela i postulati impliciti della teoria personale che si ha dell’esistenza e poiché questa teoria dell’esistenza  si vive già ampiamente in ambito scolastico, si desume che chi svolge azione formativa ha il dovere di tenerne conto. Fermo restando l’obbligo della prudenza e della preveggenza  nell’evitare forti esperienze frustranti, resta il fatto che in ambito scolastico – pure in contesto di auspicabile accoppiamento strutturale docente-discente- le avversità della vita scolastica e di quella extrascolastica che nella prima si ripercuotono, e che sono cariche di portati più delle seconde, sono inevitabili. Così alla circostanza di <<essere Lenti a riprendersi dalle avversità corrisponde, a livello cerebrale, la presenza di segnali meno numerosi o più deboli dalla corteccia prefrontale all’amigdala, o a causa di un basso livello di attività nella corteccia prefrontale, oppure perché le connessioni tra la corteccia prefrontale e l’amigdala sono esigue o operano con scarsa efficacia>> (id., p. 343).

 C’è da evidenziare che Richard Davidson insiste molto nella direzione top-down dell’esplicarsi delle emozioni in cui è la corteccia prefrontale a controllare l’amigdala e, in genere, il sistema limbico, mentre Antonio Damasio sottolinea il fatto che sentimenti primordiali, pure generati da un proto – sé  –che deve ancora divenire un sé consapevole, si <<originano nel tronco encefalico e non a livello corticale>> (Damasio 2012, p. 35). Ma è probabile, anche alla luce delle ricerche di Edelman << sulla selezione esperienziale che determina variazioni della forza di connessione delle sinapsi, favorendo alcune vie […] e indebolendone altre>> (Edelman 2004, p. 33),  che ci si riferisca, insomma, a diverse fasi delle rilevazioni rispetto ai flussi connettivi.

In sede educativa è sufficiente  inferire che lo Stile Emozionale degli allievi debba essere seguito nell’evoluzione verso l’emergere di una coscienza alta  come ipotesi di raggiungimento di un equilibrio.

L’educazione enattiva si assume più coerentemente la responsabilità di operare per l’emergere di una coscienza definita altrove (Varela 2006,  Aprile 2012) come coscienza etica. Non v’è dubbio, tuttavia, che gli strumenti elaborati da Davidson, se assunti con prudenza, possono aiutare a seguire gli allievi sull’andamento del formarsi di uno Stile Emozionale personale.

Sulla base delle applicazioni degli strumenti elaborati da Davidson, a fronte di rilevazioni –per esempio- di riprese lenti da frustrazioni occorre presentare esperienze culturali che producano emozioni positive, in modo cioè da diminuire la prevalenza dell’attività neurale della corteccia prefrontale destra che, in tal modo, riesce ad esercitare alcuni limiti all’azione devastante dell’amigdala.

Sperimentalmente, Davidson ha dimostrato  che esperienze presenti in spezzoni di filmati che <<avrebbero dovuto indurre emozioni positive […] muovevano i muscoli facciali che producono il sorriso, [e] alcune aree della corteccia prefrontale sinistra si attivavano. Per contro, guardare spezzoni che avrebbero dovuto indurre forti emozioni negative e manifestare espressioni di paura o disgusto attivavala corteccia prefrontale destra>> (Davidson, op. cit., p.58).

Fermi restando i diversi ambiti di competenza, appare del tutto evidente che ci troviamo di fronte a nuovi compiti che riguardano la ristrutturazione delle professionalità docenti. Ora, a queste, si  impongono nuovi vincoli morali o, meglio, di deontologia avanzata. Nel senso che se negli ultimi decenni le professionalità docenti si sono molto evolute per gli aspetti delle didattiche delle discipline, non si sa quasi nulla su dove vanno a parare gli apprendimenti disciplinari e cosa vanno a formare oltre quelle competenze perorate che però la crescita esponenziale delle conoscenze rende rapidamente obsolete. Le questioni morali implicate nella formazione sono le grandi dimenticate (cfr. Prairat 2013) e, a fronte dell’esaurirsi dell’efficacia formativa delle sole didattiche disciplinari, i sistemi scolastici mostrano di essere incapaci di affrontare le dimensioni etiche ed estetiche  dei saperi, a partire dalla negazione sistematica che viene fatta delle finalità o scopi delle istituzioni, il cui uso genererebbe naturalmente la didattica enattiva, ovvero le condizioni di accoppiamento strutturale docente-discente accomunati dai progetti di esistenza, nella reciproca capacità di percepire quelle emozioni altrui, in quanto condizione di equilibrio.

Educare valorizzando sentimenti, indurre emozioni per educare

Lo Stile Emozionale di Davidson richiama in causa una più esplicita esplorazione delle Emozioni e il rapporto emozioni-sentimenti. Questioni queste quanto mai trascurate dall’imperante trattazione quantitativa da parte delle didattiche in uso. In tal senso e per porre a un così grave fenomeno una sorta di ingenua barriera –pure espressa in forma d’imperio- si potrebbe affermare che le quantità vanno usate solo e se riescono a costruire qualità. Ma, si sa, le quantità lasciate alla pura trasmissione generano più disordine che ordine mentale. Nel senso che le quantità ostacolano una elaborazione delle conoscenze  in cui vi sono da cogliere importanti dimensioni come quelle che non appaiono ma che sono nascoste, implicate, nel testo.

 La mente che sia dotata di coscienza e il comportamento che ne consegue sono generati dal cervello ma questi <<rifiutano di cedere i propri segreti, a meno che non si consideri […] anche l’emozione (con i fenomeni che si celano sotto il suo nome)>> (Damasio 2012, p. 142) rendendo in tal modo giustizia a mente, coscienza e comportamenti assunti. Il che significa che non è più corretto parlare di comportamento e di mente cosciente senza vedere questi illuminati dalle emozioni e dai sentimenti generati.

Ma come funzionano mente e comportamento? Noi siamo mossi da dispositivi di ricompensa e punizione, impulsi, motivazioni che operano in modo automatico <<fino a quando la mente cosciente comincia a conoscerli sotto forma di sentimenti>> (id.). Si comprende qui come la scuola abbia da lavorare sia per aiutare le menti a divenire coscienti sia –e questo vi è strettamente connesso- a far convertire impulsi e motivazioni in sentimenti come forme di ricompensa. Annoverandosi qui peraltro la possibilità di avvicinamento verso la costruttività e l’allontanamento dalle distruttività. Ma quest’opera può avviarsi seriamente se la scuola si dispone a scoprire il proprio tesoretto di valori implicati nelle finalità etiche, recuperando un ritardo non più tollerabile.

Perché queste finalità costituiscono piste di azione e la possibilità della selezione dei saperi dentro i quali reperire modelli sentimentali generati da paradigmi emozionali o, meglio, dagli Stili Emozionali. Ma anche evidenziandone (facendoli vedere ma non indicandone l’assunzione) i valori etici. Considerato che dopo Wittgenstein (1980) l’etica non si insegna, ma la si può rendere evidente perché diventi oggetto di riflessione e di confronti interpretativi mediante i quali è possibile spostare le nozioni -incapsulate nei domini specifico- alla fertilità del dominio centrale (Fodor 1988,  Karmiloff-Smth  1995) o se si preferisce dalla pigra, ma necessaria, coscienza nucleare alla coscienza estesa di Damasio (2000) o, insomma, in direzione talamo corticale e viceversa, per effetto del rientro teorizzato da Edelman (2004). Per verifica sperimentale, questa dinamica rende possibile l’emergere di una coscienza desta, eticamente orientata all’autonomia e indipendenza di giudizio, alla capacità di distinguere tra solidarietà col gruppo e cedimento alle pressioni (Aprile 1991).

Con tali precondizioni si può assumere serenamente la perorazione di Damasio secondo cui <<le emozioni sono servitori ed esecutori diligenti del principio di valore, e sono finora il prodotto più intelligente del valore biologico>> (id., p. 142), perché mediante i sentimenti generati abbiamo la piacevole sensazione di dare colore a tutta la nostra esistenza. Ma ciò implica l’obbligo di un’azione educativa orientata all’interazione di sistemi concettuali e di sistemi di valore (id.).

 E pensare che le psicologie tradizionali, soprattutto comportamentismo e cognitivismo, hanno trascurato l’intero universo delle emozioni perché non oggettivabili o non congruenti con la logica del problem solving.

Damasio, oltre a Edelman che l’ha posta più decisamente (Edelman 1993, 2004, 2007), contribuisce a chiarire la questione del principio di valore che <<opera attraverso dispositivi di ricompensa e punizione come pure attraverso impulsi e motivazioni, che sono la parte integrante della famiglia delle emozioni>> (Damasio, op. cit., p. 143). Dunque i processi vitali sono mossi dalle emozioni e ogni forma di regolazione di tali processi è sempre riferibile alle emozioni e ai sentimenti da esse generati ma che sono distinguibili nella loro essenza. <<Mentre le emozioni sono azioni accompagnate da idee e particolari modalità di pensiero, i sentimenti delle emozioni sono perlopiù le percezioni di quello che il nostro corpo fa mentre l’emozione è in corso, unite alla percezione del nostro stato mentale in quel medesimo lasso di tempo>> (id., p.144). Da qui si dipartono gli stili di elaborazione mentale e conseguenti risposte che vanno a costituire quello che anche Davidson chiama Stato Emozionale, di una durata che approssimativamente termina col sopraggiungere di <<nuovi stimoli in grado di causare emozioni, dando così inizio a un’altra reazione a catena>> (id., p. 145).

Possibile che processi così interessanti per la cognizione umana debbano essere ignorati in sede scolastica? O forse non è il tempo di interrogarsi come le azioni formative possano intercettarli, incorpandoli nelle proprie azioni anche perché queste comprendano quelle decisioni che vanno a  produrre quei nuovi stimoli con i quali riaprire quellareazione a catena di cui sopra?

Ma come fa il docente a comprendere quando e se si sono originati quegli Stati Emozionali e se essi sono ancora in corso? Insomma, come può immaginare che le emozioni <<hanno luogo quando le immagini elaborate nel cervello attivano un certo numero di regioni –per esempio l’amigdala o particolari regioni della corteccia del lobo frontale- in grado di innescarle>> (id.)?

Da quando le neuroscienze cognitive hanno inteso far proprio l’interesse per lo studio delle emozioni, sono ricavabili dai dati di quelle ricerche possibili risposte, come per esempio il fatto che i sentimenti, prodotti dalle emozioni, sono più difficilmente inferibili direttamente negli allievi, ma le emozioni no perché hanno per loro natura una connotazione esterocettiva e pertanto sono leggibili con l’osservazione; mentre i sentimenti possono essere inferiti dai prodotti scritti come l’Autocaratterizzazione (Kelly 2004) o l’Autobiografia (Demetrio, 2012) o, meglio ancora, in forme di scrittura più tipicamente scolastiche come “Io racconto”. Questa tecnica di scrittura consiste nell’istituire un quaderno col titolo e con consegne del seguente tipo: <<In questo quaderno racconterai ciò che ti garba scrivere. Lo farai quando vorrai e come vorrai, e quindi anche con disegni, schizzi, mappe o foto da incollare. Dalle cose di tutti i giorni ai pensieri più diversi, alle idee che ti vengono, ai progetti, ai desideri, alle amicizie, a ciò che ti disturba, ai parenti, ai viaggi, a ciò che prevedi per il tuo futuro. Nessuno potrà vedere il tuo quaderno, se non lo decidi tu. Quando credi, farai vedere all’insegnante il quaderno al solo scopo di darti qualche suggerimento su ciò che vale raccontare  in dettaglio per rendere più interessante il tuo racconto>> L’esperienza ha mostrato che tali quaderni forniscono vere miniere per la comprensione dello Stile Emozionale degli allievi che lo hanno utilizzato, oltre ad indicatori significativi dell’andamento dei processi di apprendimento.

Quel che conta, si ribadisce, è che la lezione docente comprenda, a un certo punto del suo dispiegamento, un picco emozionale. Insomma, il docente deve saper suscitare emozioni perché se queste sono <<ben dirette e ben dispiegate paiono essere un sistema di appoggio senza il quale l’intero edificio della ragione non può operare a dovere>> (Damasio 2000, p. 59). E’ questo il luogo in cui prende corpo l’ipotesi di una didattica neurologicamente orientata da quegli stimoli che attivano, anche in termini di intensità sinaptica, determinate aree neuronali che producono attenzione, ritenzione sostenuta, memoria, possibilità di azione. Purché si tenga conto del limite, che è quello di evitare lo sconvolgimento del pensiero (cfr. Damasio 2012, p.150, Nussbaum 2009), anche se –e si insiste su questo- saper suscitare in una lezione –per esempio- sulla biografia di un patriota del Risorgimento o della Resistenza, la commozione per le scelte di vita che portano al sacrificio, e suscitando questo compassione sul destino dell’eroe, rende efficace l’apprendimento per l’attivazione della corteccia prefrontale ventromediale (vedi Damasio op. cit., p. 147) ; o almeno, con qualche certezza, può dirsi che è <<come se certi stimoli avessero la chiave giusta per una certa serratura>> (id.).

Dunque, le emozioni possono svolgere in sede formativa una funzione centrale nel determinare apprendimenti efficaci, a condizione che si riesca a navigare tra la Scilla della intensità emotiva e la Cariddi  dello sconvolgimento del pensiero, sapendo che debordando o non intraprendendo il viaggio, l’alternativa è l’insignificanza dell’azione didattica.

Qui l’azione docente dovrà farsi fortemente strategica nella selezione degli stimoli i quali devono fungere da <<chiave giusta per una certa serratura>> (id.). La serratura sta nella salvaguardia e nel potenziamento degli stili di elaborazione mentale degli allievi, ovvero dello “stato emozionale” (Damasio, id., p. 145) come elemento e fase della crescita dello Stile Emozionale teorizzato da Davidson. In una ipotesi dello sviluppo della neurodidattica occorre avviare un’indagine sul significato (che in parte si è abbozzato) e sulla configurazione di ciò che debba intendersi  in sede didattica per  <<stimolo emozionalmente competente>> (id., p. 148). Altrove (Aprile 2007) è stata richiesta una strategia di selezione dei saperi; ma alla luce dei risultati della ricerca neuroscientifica più recente tale selezione dovrà estendersi alla comprensione  della temperie che coinvolge il <<melieu interno, oltre alla muscolatura striata della faccia, la postura, la velocità stessa della mente e l’argomento dei pensieri>> (Damasio, op. cit., pp. 149-150) con cui gli allievi si pongono nell’interazione scolastica.  Bisogna però appellarsi ancora a un “purché” ; purché i segnali <<siano sufficientemente intensi e il contesto sia appropriato>> (id.). La didattica enattiva, svolta secondo le indicazioni della neurodidattica (Rossi 2011, Rivoltella 2012), ovvero nel tener conto dei correlati neurali che si attivano secondo la proposta didattica, attua quei segnali intensi e crea i contesti appropriati.

Fortunato Aprile

Riferimenti bibliografici

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  4. Damasio A. (2000), Emozione e coscienza, Milano, Adelphi.
  5. Damasio A. (2012), Il sé viene alla mente, Milano, Adelphi.
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  7. Demetrio D. (2012), Educare e narrare, Milano, Mimesis.
  8. Edelman G. (1993), Sulla materia della mente, Milano, Adelphi.
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  12. Goleman D. (1999), Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli.
  13. Goleman D. (1998), (a cura di), Le emozioni ch fanno guarire, Milano, Mondadori.
  14. Goleman D. (2003), (a cura di, col Dalai Lama), Emozioni distruttive, Milano, Mondadori.
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  17. Kelly G. (2004), Psicologia dei costrutti personali, Milano, Cortina.
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  20. Rossi P. G. (2011), Didattica enattiva, Milano, Angeli.
  21. Varela F. (2006), Neurofenomenologia, in  M. Cappuccio (a cura di) Neurofenomenologia, Milano, Bruno Mondadori.
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