Terapia del dolore: un messaggio in bottiglia…

Terapia dolore: un messaggio in bottiglia...Poche cose quanto il trattamento del dolore dovrebbero richiedere una gestione “integrata”. E questo perché il dolore è un’esperienza soggettiva: troppi sono gli elementi che concorrono alla sua elaborazione da parte di un singolo individuo per cercare di oggettivare la sofferenza che egli prova. La medicina ci ha provato in ogni modo, nel suo continuo – e per molti aspetti sacrosanto e legittimo – anelito a rincorrere l’oggettività, ma…

Ci ha provato con scale di valutazione e approcci di ogni tipo, ma non c’è niente da fare: il dolore sfugge a ogni possibile classificazione certa e rigorosa. Anche la semplice domanda che sempre più spesso i medici pongono ai loro pazienti sofferenti, e cioè “Quanto dolore prova su una scala da 1 a 10?”, è una domanda aleatoria, quanto mai relativa. Cos’è 5, o 6? Il mio 5 è uguale al tuo 5? E 10 cosa vuol dire, cosa c’è dopo il 10? Insomma, quasi una sciocchezza porre una simile domanda.

Ogni uomo è diverso di fronte al dolore. C’è chi lo accoglie, e rifiuta ogni trattamento perché non sarebbe “virile”. Passerà, egli pensa, così come è venuto… E c’è chi invece è terrorizzato da un dolore anche piccolo e non può fare a meno di assumere antidolorifici anche per cose da poco.

C’è la donna che mai e poi mai vuole ricorrere a qualcosa che lenisca il suo dolore durante il parto perché deve vivere appieno questo momento unico, totalizzante, e c’è quella che, al contrario, è atterrita dai dolori del parto e vorrebbe idealmente svegliarsi col bimbo sul seno.

Uomini e donne, adulti e bambini sono diversi nei confronti del dolore. È luogo comune ritenere che le donne siano più pazienti e sappiano sopportarlo meglio, e naturalmente per i bambini esso è un’esperienza devastante perché ancora non sono in grado di inquadrarlo e capirlo, anche se in altri contesti sembra verificarsi il contrario: la tonsillectomia, per esempio, negli adulti è molto più dolorosa che nei bambini.

E ancora, per capire come il dolore venga inquadrato in modo diverso, basta pensare al famoso e forse logoro esempio, ma quanto mai valido, del soldato ferito in guerra che non sente il suo dolore vuoi per la tensione del momento vuoi perché forse quel dolore significa il ritorno a casa, mentre il dolore in un malato terminale evoca la fine imminente.

Oppure, pensiamo come diverse culture vedono il dolore e troveremo anche qui aspetti completamente diversi, a partire dai rituali per uscire dall’adolescenza ed entrare nella maturità diffusi in popolazioni tribali che passano sempre per esperienze e prove dolorosissime, eppure ritenute fortificanti e necessarie.

Le religioni, poi, ci mettono del loro, e anche pesantemente. Il cristianesimo, a partire dal suo “tu donna partorirai con dolore” sino al pensiero non tanto riposto che il dolore avvicina a dio, e che certo non è stato utile in tanta pratica medica, specie di anni passati, dove il malato si lasciava soffrire. E il buddismo, che parte dal presupposto che tutta la vita è dolore per giungere con i suoi insegnamenti al suo superamento.

Insomma, il dolore è sempre soggettivo: lo afferma anche la International Association for the Study of Pain (IASP) che in una ormai lontana definizione del dolore (è del 1979) lo definisce “un’esperienza sensitiva ed emotiva spiacevole, associata a un effettivo o potenziale danno tissutale o comunque descritta come tale. Il dolore è sempre soggettivo. Ogni individuo apprende il significato di tale parola attraverso le esperienze correlate a una lesione durante i primi anni di vita. Sicuramente si accompagna a una componente somatica, ma ha anche carattere spiacevole, e perciò, a una carica emozionale”.

Il dolore, quindi, è un’esperienza totale perché oltre alla componente somatica, fisica, ci sono componenti culturali, sociali, spirituali. Ovviamente ci sono contesti in cui devono esistere linee guida o parametri assodati per il trattamento del dolore, si pensi solo al dolore postoperatorio o a quello nel malato oncologico, ma ogni altra gestione del dolore, specie per quello cronico, non occasionale, non dovrebbe mai prescindere dalla valutazione del paziente nella sua globalità. Insomma, occorre un approccio il più possibile multidisciplinare.

Bisogna considerare la malattia, lo stadio della medesima, valutare le condizioni generali dell’individuo. Quindi approfondire le caratteristiche del dolore, e infine arrivare a cogliere il profilo psicologico del paziente, la sua cultura, il suo vissuto. Senza questo tipo di approccio, bisogna darlo quasi per certo, il trattamento del dolore non potrà essere soddisfacente e non darà i risultati sperati.

Tiziano Cornegliani, MD
Medical writer

Link utili:

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