Autismo: intervista a Tiziana Zalla, direttrice di ricerca al CNRS

Michela Mori, science communication officer a Parigi, ha intervistato per BrainFactor Tiziana Zalla (nella foto), direttrice di ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, specializzata in scienze cognitive e psicopatologia, sul tema dell’autismo.

Dottoressa Zalla, lei studia l’autismo da oltre 15 anni. Come mai questa scelta?

Sono sempre stata affascinata dalle facoltà cognitive che entrano in gioco nella qualificazione del comportamento, permettendo la predizione dell’azione negli altri e la comprensione delle intenzioni sottostanti. Constatando un vuoto nella comprensione della disfunzione cognitiva nel caso di popolazioni psichiatriche, mi è sembrato interessante usare dei modelli provenienti dalla neuropsicologia, la scienza che studia i disturbi cognitivi a partire dalle lesioni cerebrali, applicandoli alle popolazioni psichiatriche. Lo studio delle alterazioni cognitive permette infatti di creare un legame tra la parte clinica sintomatologica, che include, nel caso della schizofrenia per esempio, la disorganizzazione del comportamento e le allucinazioni, e le alterazioni biochimiche e cerebrali. Oggigiorno, questo è possibile grazie alla neuroimaging, che permette di individuare le aree attivate durante lo svolgimento di un compito e così stabilire un legame tra il disturbo anatomico e la sintomatologia comportamentale riscontrata.

Possiamo dire che esiste oggigiorno unanimità nella comunità scientifica rispetto alle cause dell’autismo? 

C’è unanimità sul fatto che l’autismo è multifattoriale. La componente genetica è senza dubbio molto forte, secondo alcuni è all’origine dell’80% dei casi, secondo altri solo del 50% con il concorso di fattori ambientali di vario tipo (infezioni contratte dalla madre in gravidanza, status immunologico materno-fetale, etc.). Recentemente è stata proposta la pista dell’inquinamento ambientale.

Esiste un differente approccio tra i paesi in cui l’autismo è studiato?

Diciamo che in alcuni paesi, come la Gran Bretagna e i paesi del Nord Europa, la valutazione diagnostica e l’intervento terapeutico nell’autismo sono più avanzati. La Francia ha un approccio particolare, in quanto legata ad una visione psicoanalitica dell’autismo, inteso come una psicosi – e non come disturbo neurologico- che nasce da una cattiva relazione con la madre. Questa teoria e l’efficacia delle varie terapie psicoanalitiche o psicodinamiche non sono state mai scientificamente provate. Purtroppo la differenza di approccio ha un forte impatto sull’inserzione nella società dei bambini autistici. Nel caso dei paesi anglossassoni e nordeuropei oltre l’80-90% di questi bambini frequentano le scuole, in Francia appena il 20% riesce a seguire un percorso scolastico regolare.

Autismo: intervista a Tiziana Zalla, direttrice ricerca al CNRS

Young woman sitting in a glass jar (from Shutterstock)

Quando si parla di autismo, si pensa immediatamente a soggetti che hanno problemi nelle relazioni sociali…

Proprio così. Questo è probabilmente dovuto al fatto che quando si cerca di dare un’idea di cosa è l’autismo al grande pubblico, si cade spesso in una forma di caricatura o semplificazione: l’autismo viene presentato principalmente come deficit delle relazioni sociali, a scapito di altri disturbi cognitivi, percettivi e comportamentali altrettanto importanti e frequenti. A mio avviso se ci si concentra unicamente sui deficit sociali, si rischia di avere una visione riduttiva e si perde la visione d’insieme della relazione tra i singoli disturbi. Questo riflette lo stato attuale della ricerca, forse troppo concentrata su un piano descrittivo del disturbo. Sarebbe invece opportuno concentrarsi sulle origini del disturbo cognitivo e sui possibili legami tra i sintomi: chiedersi cioè se le cause risiedono nell’alterazione di meccanismi cognitivi responsabili della funzione sociale o se invece non esista un problema altrove, di cui i problemi di cognizione sociale sarebbero una conseguenza e non la causa. Se prendiamo l’esempio della teoria della mente, secondo cui arriviamo a ragionare sulle intenzioni degli altri, questa capacità si sviluppa relativamente tardi, verso i tre, quattro anni. Eppure l’autismo si manifesta prima. Questo significa che alcune anomalie neurocognitive sono presenti già prima dell’apparizione della teoria della mente, nella fase di sviluppo delle funzioni percettive, motorie e affettive del cervello. Purtroppo, le ricerche condotte solo su adulti non permettono di individuare i motivi per cui l’adulto autistico è arrivato ad avere delle performance sociali diverse da quelle di un soggetto tipico.

Questa incapacità è quindi all’origine di molte delle difficoltà di relazione dei soggetti autistici?

Certo. I soggetti autistici tendono spesso a non capire i comportamenti altrui o a interpretare atti involontari come intenzionalmente cattivi, e gli autori come delle persone mal intenzionate. Questo problema si traduce in una difficoltà di interagire serenamente. Spesso questo persone si chiudono alla comunicazione o diventano aggressive, o paranoiche, e questo ovviamente favorisce un comportamento di esclusione e isolamento da parte dell’ambiente.

Un suo recente studio si concentra sull’interpretazione degli atti involontari da parte dei soggetti autistici. In cosa consiste il test che ha realizzato e cosa se ne può dedurre?

Ho proposto a degli adulti con autismo di alto funzionamento o con Sindrome di Asperger di interpretare delle storie che contengono una gaffe, quello che chiamiamo dei “faux pas”: ad esempio, una donna si sposa, organizza un matrimonio con molti invitati e riceve da un’amica in regalo un vaso di cristallo. Un anno dopo, la donna invita l’amica e quest’ultima rompe inavvertitamente il vaso. La donna le dice: “Tanto non mi piaceva, non ti preoccupare. Non mi ricordo neanche chi me l’abbia regalato”

Si chiede ai soggetti se hanno notato qualcosa che non si dovrebbe fare. Alcuni mostrano la consapevolezza che è stata fatta una gaffe e sono spesso in grado di identificarne l’autore. Quando però si inizia a lavorare sull’intenzione, chiedendo qual è il contenuto della gaffe, questi mostrano un’incapacità di mettersi nella mente della sposa, giudicando il gesto intenzionale. Un soggetto tipico sa dare una descrizione precisa e contestuale della storia. Grazie ad una serie di inferenze quasi automatiche, e precisamente tenendo conto del fatto che al matrimonio ci fossero molti invitati, è facilmente in grado di immaginare che la sposa non si ricordasse e che non ci sia intenzione di ferire.

Nel caso del soggetto autistico invece la gaffe viene considerata un atto volontario e volto a ferire. Si è sempre pensato che questo dipenda da un’incapacità di mettersi nei panni dell’altro. Secondo uno studio da me condotto nel 2009 che usava questo tipo di materiale, sembrerebbe che questa incapacità sia un effetto e non una causa. Infatti il soggetto autistico, presentando un funzionamento più frammentario e una mancanza di visione globale, non riesce a cogliere e mettere insieme quegli elementi del contesto che permettono di realizzare le inferenze corrette sul comportamento altrui. La sua interpretazione scorretta dipenderebbe quindi dal non saper utilizzare tutte le informazioni del contesto, ed avrebbe come effetto il non riuscire a mettersi nei panni dell’altro, con conseguenti interpretazioni scorrette del comportamento altrui.

Autismo: intervista a Tiziana Zalla, direttore ricerca al Jean Nicod

Tiziana Zalla, direttrice di ricerca CNRS all’Istituto Jean Nicod, all’Ecole Normale Supérieure di Parigi, nel suo studio. Copyright: Michela Mori, BrainFactor 2015.

Sulla base di questi elementi, cosa si potrebbe fare allora per migliorarne la condizione? 

È necessario concentrare gli sforzi su come rendere le informazioni di contesto più esplicite, in modo da permettere ai soggetti autistici di capire le vere intenzioni degli altri.  Nel caso del test, per esempio, si potrebbe dire chiaramente che al matrimonio c’erano molti invitati, molti regali, e che la sposa non si ricorda chi le ha regalato il vaso. In contesti quali la famiglia o le scuole, si dovrà pensare a rendere accessibile tutta l’informazione necessaria ad un ragionamento sociale corretto, perché i soggetti autistici possano migliorare di riflesso le loro interazioni e la vita sociale.

In un altro suo studio, ha esaminato l’effetto dell’ossitocina sul comportamento sociale. Ci può spiegare in che modo questo ormone può migliorare le performance dei soggetti autistici? 

Esistono numerosi studi che mostrano come l’ossitocina può rendere una persona più interessata ai segnali sociali mandati dagli altri, per esempio aumentando i tempi di fissazione nelle parti significative del viso, quali gli occhi. Inoltre questo ormone aumenta la fiducia nell’altro e riduce i comportamenti ripetitivi. Si tratta di aspetti tipicamente deficitari nei soggetti autistici, nei quali sembra che il tasso di ossitocina plasmatico sia al di sotto della norma.

In collaborazione con dei colleghi di Lione, abbiamo somministrato un test comportamentale basato su un gioco della palla. Questo ha permesso di verificare che i soggetti autistici sono maggiormente in grado di distinguere tra giocatori cooperativi e non cooperativi in seguito alla somministrazione di ossitocina, principalmente in quanto l’attenzione verso gli altri partner migliora, così come la loro capacità di esplorare i volti. Si rinforza quindi l’idea che nel soggetto autistico esista un’alterazione relativa al metabolismo dell’ossitocina, la cui somministrazione potrebbe costituire un trattamento da accompagnamento ad una psicoterapia cognitivo-comportamentale adeguata. Si potrebbe addirittura sperare di ottenere un effetto di prevenzione se questo tipo di studio potesse essere effettuato sui bambini: rinforzando la loro capacità di esplorare i volti grazie all’ossitocina, li si abituerebbe, sin da piccoli, a trattare tutti gli stimoli sociali pertinenti e a sviluppare al meglio le loro competenze e conoscenze sociali. Questo potrebbe probabilmente favorire uno sviluppo equilibrato delle loro facoltà cognitive e quindi un miglioramento considerevole della loro qualità della vita in termini di integrazione sociale e di autonomia. Purtroppo questi studi richiedono dei finanziamenti considerevoli, e per il momento sono stati eseguiti unicamente sugli adulti.

Dottoressa Zalla, un’ultima domanda. Quali argomenti le piacerebbe esplorare in futuro?

Mi piacerebbe approfondire lo studio dei meccanismi automatici che guidano i giudizi e i comportamenti sociali. Mi interessa capire quali e quante delle nostre decisioni son frutto di un vero processo decisionale razionale e cosciente e quante sono invece il risultato di “decisioni automatiche” e inconsce. Sappiamo infatti che la maggior parte della nostra vita mentale non è accessibile alla coscienza. Lo studio neuroscientifico dell’inconscio cognitivo e della coscienza di sé ci permette di comprendere meglio la storia evolutiva della nostra specie.

Michela Mori

Fonti:

  1. Tiziana Zalla (2014) Amygdala, Oxytocin and Social Cognition in Autism Spectrum Disorders, Biological Psychiatry, 1;76 (5):356-7.
  2. Tiziana Zalla, Marco Sperduti. (2013) The Amygdala and the Relevance Detection Theory of Autism: An Evolutionary Perspective, Frontiers in Human Neuroscience, doi: 10.3389/fnhum.2013.00894.
  3. Elissar Andari, Jean-René Duhamel, Tiziana Zalla, Evelyn Herbrecht, Marion Leboyer, and Angela Sirigu, “Promoting social behavior with oxytocin in highfunctioning autism spectrum disorders”, PNAS, 2010.
  4. Tiziana Zalla, Anna-Maria Sav, Astrid Stopin, Sabrina Ahade, Marion Leboyer. (2009) Faux Pas Detection and Intentional Action in Asperger Syndrome. Journal of Autism and Developmental Disorders, 39:373–382.

Image credits: Shutterstock

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