Un approccio multilivello nelle neuroscienze cognitive

Abstract

La nascita delle neuroscienze cognitive ha rappresentato una rivoluzione in riferimento alla possibilità di indagare le basi neurali dei processi mentali nell’essere umano. Più che un punto di arrivo, però, l’istituzione delle neuroscienze cognitive può essere considerata la continuazione di un dibattito antico, quello sul rapporto tra mente e corpo.

Grazie anche allo sviluppo delle tecniche di neuroimaging, in primo piano la PET e la fMRI, hanno consentito di svincolarsi dal metodo della neuropsicologia clinica classica, ovvero quello delle correlazioni anatomo-cliniche o lesionale, tutt’oggi utilizzato.

L’evoluzione delle conoscenze sulla neurofisiologia e neurobiologia del cervello, più che risolvere, ha reso ancor più complesso e alimentato il dibattito riguardo la relazione tra mente e corpo, tra mente e cervello, e la questione può essere posta fondamentalmente in questi termini : la conoscenza del funzionamento delle unità di base del cervello, ovvero i neuroni, e della loro fisiologia è sufficiente per una comprensione dei fenomeni mentali complessi ?E’ possibile indagare le funzioni cognitive, come la coscienza, senza fare riferimento all’organizzazione anatomo-funzionale del cervello?

Questo articolo si propone come spunto di riflessione ipotizzando l’utilizzo di un approccio multilivello allo studio dei processi mentali che superi la classica separazione tra scienze cognitive e neuroscienze e che vada oltre l’ipotesi di lavoro che considera le funzioni mentali come realizzabili in distinti substrati fisici, o da differenti strutture, per chiarire il contributo delle neuroscienze cognitive alla comprensione della relazione mente e cervello, in altre parole la comprensione dell’interazione tra strutture e funzioni.

Introduzione

Il dibatto sulla relazione tra mente e corpo ha radici in un lontano passato. Dopo aver definitivamente chiarito che i processi mentali umani emergono dai processi cerebrali, l’attenzione degli studiosi si è concentrata sulla possibilità di localizzare le funzioni mentali in aree o sistemi di aree nel cervello, quindi sulla relazione mente e cervello.

Verso la fine degli anni ’70 del XX Secolo è stata istituita una disciplina scientifica, o sarebbe preferibile dire un’insieme di discipline scientifiche, il cui obiettivo è fare incontrare le neuroscienze, un campo interdisciplinare che indaga il funzionamento normale e patologico del sistema nervoso insieme ai livelli molecolari e cellulari mettendo in relazione questi aspetti ai sistemi e livelli di comportamento e il cui nome iniziò a circolare nella seconda metà del Novecento grazie anche agli studi neurofisiologici condotti da studiosi come Charles Sherrington (Roy e Sherrington, 1890) e le scienze cognitive, un altro insieme di discipline con il comune obiettivo l’indagine dei processi cognitivi nell’essere umano (per un’introduzione si veda Greco, 2011; 2012; 2021; Purves et al., 2015).

Era l’alba delle neuroscienze cognitive, anche se, in realtà, le radici concettuali poggiano su un terreno più antico (Loprete, 2021). Alla base di questo nuovo approccio alla relazione mente e cervello c’è un’insieme di sforzi per giungere ad una più profonda comprensione su come il cervello renda possibile la mente (Mansfield, Gazzaniga e Rakoff, 2010).

Tuttavia non sono mancati i problemi (Cooper e Shallice, 2010). Le scienze cognitive indagano il livello funzionale e non si preoccupano della macchina sottostante, in altre parole il cervello, le neuroscienze invece indagano il livello meccanicista. Alla base di quest ultimo c’è l’ipotesi che una volta spiegati i meccanismi che governano i singoli neuroni si può giungere a spiegare come la loro attività causi le abilità mentali complesse.

Se prese isolate sia le scienze cognitive che le neuroscienze non coglierebbero in pieno il vero contributo fornito dalle neuroscienze cognitive, da una parte perché una discussione relativa alle funzioni cognitive complesse non può prescindere dalla conoscenza, o quanto meno dalla considerazione, delle caratteristiche anatomo-funzionali del cervello; dall’altra un approccio riduzionista causale, come quello adottato dalle neuroscienze, con ogni probabilità incontrerebbe grosse difficoltà nel contribuire allo sviluppo di una conoscenza relativa a funzioni complesse irriducibili nelle loro parti costituenti come lo sono le abilità mentali (Bucci, 2019; Grasso et al., 2021).

Il tema principale di questo articolo è l’ipotesi di un approccio multilivello (Boone e Piccinini, 2016) alla comprensione della relazione mente e cervello. Adottando molteplici livelli di analisi, dalla neurofisiologia, ai modelli computazionali, alle misure comportamentali, le neuroscienze cognitive potrebbero giungere ad una comprensione più profonda, senza la presunzione che sia assoluta, su come le abilità cognitive complesse siano permesse dalle operazione dei vari network cerebrali coinvolti e questo processo chiama in causa uno sforzo di collaborazione tra scienze cognitive e neuroscienze, con questo senza negare l’autonomia delle diverse discipline.

Il passato restituisce degli esempi che chiariscono meglio il concetto di integrazione multilivello. La prossima sezione ne fornirà uno tra i diversi disponibili.

Un approccio multilivello per l’apprendimento

Nel 1913 John B. Watson pubblica il manifesto del comportamentismo (Schneider e Morris, 1987), fondando una scuola di pensiero che diventerà nei decenni successivi protagonista della psicologia scientifica nordamericana ed europea: il comportamentismo.

Primo sforzo di Watson fu la definizione di una branca oggettiva delle scienze naturali il cui obiettivo principale doveva essere, secondo lui, la predizione e il controllo del comportamento (Watson, 1913). Presto si allontanò da alcuni suoi predecessori, in particolar modo da Wilhelm Wundt che nel 1879 aveva fondato il primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia. Wundt sosteneva la possibilità di indagare i contenuti della coscienza attraverso il metodo introspettivo per poi verificare come i diversi elementi della coscienza potessero combinarsi tra loro.

Watson, pur non negando l’esistenza dei contenuti mentali (Loprete, 2021), considerava la psicologia scientifica una scienza che avrebbe dovuto concentrare i suoi sforzi esclusivamente sull’osservazione e sullo studio del comportamento, spostando in tal modo il focus dell’indagine psicologica dai contenuti della mente al comportamento osservabile. Comportamento che risultava, secondo lui, come la manifestazione di una risposta a uno stimolo esterno.

Benché questa scuola di pensiero non fu immune da critiche, avanzate anche prima della sua affermazione (Dewey, 1896), il comportamentismo divenne protagonista della psicologia scientifica per tutta la prima metà del Novecento.

In pieno clima comportamentista Karl Lashley, allievo di Watson (Bartlett, 1960; Loprete, 2021), fu tra i primi ricercatori ad approfondire lo studio degli aspetti neurofisiologici correlati ai processi mentali.

Il lavoro di Lashley partiva da un modo di concettualizzare il funzionamento cerebrale in contrasto con i modelli prevalenti all’epoca ad esempio quello dell’arco riflesso, un modello di formazione degli apprendimenti che prese particolare forza con i contributi di Secenov e soprattutto Pavlov.

Secondo Lashley, affrontando lo studio del cervello, occorreva adottare un’ unità di analisi del comportamento che considerasse la mutua influenza tra le diverse attività espletate dal cervello (Lashley, 1930) spostando l’attenzione della ricerca su evidenze che indicavano come i sintomi emergenti dalle lesioni cerebrali non erano solamente l’esito della mancanza del tessuto che normalmente supportava una particolare forma di processo cognitivo, ma anche di una riconfigurazione funzionale : le funzioni cognitive erano da considerarsi come delle proprietà emergenti dall’intero cervello e non dall’associazione di singole parti (Tizard, 1959). In riferimento ai sintomi che conseguivano da una lesione cerebrale erano, secondo Lashley, da valutare come un indice poco affidabile della funzione correlata all’area lesa, almeno nelle prime manifestazione dei sintomi stessi:

La produzione di sintomi specifici, a causa di lesioni corticali strettamente localizzate, fornisce un indizio per valutare la natura dell’organizzazione cerebrale ma, considerato da solo, esso non fornisce un quadro adeguato dei processi mediante i quali si verifica l’integrazione” (Lashley, 1933).

In questo senso la specializzazione funzionale associata ad una regione cerebrale non emergeva come una proprietà fissa (Marshall e Fink, 2003). Le prove sperimentali che supportarono le sue ipotesi derivarono da una serie di esperimenti ormai divenuti un classico delle neuroscienze cognitive.

Indagando i processi fisici e biologici che sottostanno all’apprendimento e all’immagazzinamento delle memorie, chiamati engrammi da Richard Semon (Josselyn, Köhler e Frankland, 2015; Devan, Berger e McDonald, 2018), Lashley come primo passo operazionalizzò il costrutto engramma per renderlo indagabile sperimentalmente valutando la performance iniziale di alcuni roditori in termini di errori e tempo necessario per trovare l’uscita in labirinti di complessità crescente. Successivamente rimuoveva alcune parti del loro cervello, di volta in volta di estensione sempre maggiore, facendo loro ripetere la prova del labirinto e rilevando nuovamente l’abilità dei ratti nel trovare l’uscita. Lashley trovò che il numero di errori era proporzionale alla quantità di tessuto cerebrale distrutto e al grado di complessità del labirinto, quindi della prova di apprendimento.

I due principi da lui stesso espressi per spiegare gli esiti del danno cerebrale sul comportamento furono quelli dell’equipotenzialità e dell’azione di massa: con equipotenzialità indicava la capacità del cervello di compensare i danni da lesioni mediante le aree preservate; secondo il principio di azione di massa una funzione cognitiva era compromessa maggiormente da lesioni cerebrali estese, con un effetto ancora più significativo quando la prova di apprendimento era più difficile. Lashley, quindi, considerava il cervello come una totalità integrata nell’esecuzione di performance complesse.

Nel Secondo dopoguerra, grazie anche al rapido emergere e sviluppo dell’informatica e dei primi calcolatori, lo studio dei processi cognitivi umani riacquistò nuovo interesse. Indagare le abilità mentali è un compito complesso e, come in altri campi del sapere, nel tempo sono state adottate diverse analogie, ultima delle quali quella tra cervello e calcolatori. Alla base di questa operazione, ovvero ricorrere alle analogie tra cervello e poi la mente con le tecnologie che nel corso della storia umana sono state sviluppate, c’è l’idea di trovare una chiave per comprendere l’organizzazione funzionale delle abilità cognitive.

Se il comportamentista rigettava gli stati mentali o cognitivi (Boone e Piccinini, 2016) la psicologia cognitivista invece rivendicò l’importanza di un loro studio per infine giungere ad una spiegazione delle capacità intellettive umane.

Era l’inizio della rivoluzione cognitiva; tuttavia coloro i quali verranno successivamente considerati cognitivisti, con ogni probabilità non erano consapevoli di essere cognitivisti. Basti pensare che il termine ‘psicologia cognitiva’ apparirà solo verso il finire degli anni ’60 grazie ad una pubblicazione di Neisser (1967).

Uno tra i primi cognitivisti fu l’allievo più illustre di Lashley, ovvero Donald Hebb. Dopo aver completato il suo dottorato, Hebb ebbe l’occasione di collaborare con Wilder Penfield.

A partire dall’osservazione degli effetti delle procedure neurochirurgiche implementate da Penfield, Hebb iniziò una riflessione sul modo in cui la mente emergeva dai processi fisiologici del cervello (Ladino, Rizvi e Téllez-Zenteno, 2018) tentando di identificare le regioni all’interno della corteccia richiamate dai diversi processi cognitivi e comportamentali (Snyder e Whitaker, 2013). Hebb si rese conto che le abilità cognitive umane erano da intendersi un fenomeno complesso costituite da componenti innate e altre acquisite tramite l’esperienza, e che tali componenti multiple potevano essere danneggiate separatamente (Brown, 2007).

Se da un lato Hebb era in linea con Lashley riguardo all’inadeguatezza del modello dell’azione riflessa per spiegare un comportamento complesso come l’apprendimento, la collaborazione con Penfield chiarì come anche una posizione olistica delle abilità mentali, come quella adottata da Lashley, appariva un pò troppo rigida in riferimento alla flessibilità dell’organizzazione anatomo-funzionale del cervello umano. Hebb perciò teorizzò un principio per la formazione delle memorie e dell’apprendimento in linea con le evidenze sperimentali. Apparso ufficialmente in “The Organization of behavior: A neuropsychological theory” (Hebb, 1949) propose tale assunto teorico :

Quando l’assone di una cellula A è abbastanza vicino per eccitare una cellula B e ripetutamente e persistentemente prende parte al suo potenziale d’azione, alcuni processi di crescita o cambiamenti metabolici hanno luogo in una o in entrambe le cellule tale che l’efficienza di A […] è incrementata, cioè le connessioni sinaptiche tra le due cellule sono rafforzate”.

Ne segue che se un neurone postsinaptico e uno presinaptico “sparano” il potenziale di azione nello stesso istante, le loro connessioni si rafforzano formando delle assemblee cellulari che costituirebbero le formazioni fisiche sottostanti l’apprendimento. Tali assemblee sarebbero responsabili di un riverbero delle informazioni nel circuito che si è formato, che andrebbe a supportare la formazione di rappresentazioni durevoli nel tempo, assunto in cui ritornava un’idea sviluppata con David Hartley molti anni prima, secondo cui le cellule che vibravano insieme stavano insieme (Buckingham, 2002; Glassman e Buckingham, 2007, Loprete, 2021).

La formazione di assemblee cellulari o reti di neuroni che seguivano questo principio divenne nota come apprendimento hebbiano. Quello che occorre sottolineare è il ritorno ad un’indagine relativa ai processi cognitivi che era stata preclusa dai comportamentisti per parecchi decenni.

Gli effetti teorizzati da Hebb saranno dimostrati qualche anno dopo da Bliss e Lømo con la scoperta del’LTP (long-term potentiation) o potenziamento a lungo termine (Bliss e Lømo, 1973), un fenomeno trovato inizialmente nell’ippocampo di coniglio e successivamente anche in altre strutture cerebrali. Studiando gli effetti della ripetuta stimolazione ad alta frequenza (tetanizzazione) delle fibre nervose a livello della via perforante del giro dentato dell’ippocampo scoprirono che la trasmissione sinaptica appariva facilitata, ovvero i neuroni postsinaptici delle vie stimolate rispondevano maggiormente ai successivi input che derivavano dalla medesima via stimolata (Purves et al., 2015) causando un persistente incremento dell’efficacia della trasmissione sinaptica; tale miglioramento, o potenziamento, era specifico per il percorso stimolato (Bliss e Lømo, 1973).

La conseguente riflessione sulla rilevanza che questo fenomeno poteva rivestire nel chiarimento di alcuni aspetti collegati ai processi di memoria e all’apprendimento (Lømo, 2018), fu un esempio di approccio in cui le conoscenze maturate nel campo delle neuroscienze si intrecciavano con i modelli teorici della psicologia cognitiva (Loprete, 2021), un campo che è oggi conosciuto con il nome di neuroscienze cognitive (Sejnowski, 2003).

Conclusione

Quello appena descritto è uno tra i numerosi esempi di come il passato possa offrire, se non delle soluzioni, quantomeno dei suggerimenti su come impostare un’indagine a diversi livelli dei processi mentali nell’essere umano, nel caso sopracitato l’apprendimento, creando l’opportunità di una spiegazione multilivello (Piccinini e Craver, 2011) su come i differenti stadi di processamento delle informazioni si verifichino nel cervello e sui vari meccanismi neurobiologici mediante i quali sono implementati (Gallistel e King, 2011) con ciò senza separare la mente dal cervello (Gazzaniga, 2010).

Gli ultimi decenni di ricerche delle neuroscienze cognitive, complice lo sviluppo delle tecniche di neuroimaging come la PET e la fMRI, hanno suggerito come costrutti complessi, per esempio la coscienza o la responsabilità, non sono riducibili ai correlati neurofisiologici e neurobiologici (Polanyi, 1976). Anzi le proprietà emergenti dall’organizzazione di componenti più semplici mostrerebbero un’influenza top-down sul funzionamento dei livelli più bassi (Gazzaniga, 2010), come già dimostrato dal fenomeno dell’apprendimento hebbiano.

Dall’organizzazione di semplici parti possono emergere funzioni complesse, ma anche se si conoscessero i principi di funzionamento di ogni singola componente, per esempio i neuroni, non ne deriverebbe automaticamente la ricostruzione del meccanismo causale che porta alla funzione mentale complessa. Inoltre questo concetto di riduzionismo causale (Grasso et al., 2021) applicato alle neuroscienze cognitive non è immune da problematiche, se non si tiene in considerazione la possibilità che fattori esterni e non controllati dagli sperimentatori possano influire sulla relazione causa effetto, ovvero sarebbero contesto dipendenti (Radder, 2021).

Allo stesso tempo aumentano le evidenze sperimentali che suggeriscono come un approccio allo studio delle funzioni cognitive senza fare riferimento al livello meccanicista, in altri termini il cervello, possa produrre risultati sperimentali che poco si adattano all’effettiva organizzazione anatomo-funzionale del cervello (Turner e Turner, 2021).

Un approccio multilivello, quindi, suggerisce la stretta collaborazione tra le scienze cognitive e le neuroscienze, superando la classica separazione a due livelli, ovvero l’indagine delle funzioni cognitive a prescindere dalle conoscenze sul cervello e il vincolo delle funzioni cognitive ad un riduzionismo causale. Quindi un approccio multilivello al collegamento tra strutture e funzioni (Beam et al., 2021).

Questo progetto, che prende il nome di neuroscienze cognitive, richiama uno sforzo alla collaborazione tra le differenti discipline, allo stesso tempo senza minacciare l’autonomia delle stesse.

Fig. 1. La figura illustra schematicamente l’ipotesi di un approccio multilivello nelle neuroscienze cognitive. La relazione tra i più alti livelli di organizzazione del sistema nervoso (comportamento, processamento delle informazioni…) e gli ambiti delle scienze che, a vari livelli, si occupano della loro indagine e della relazione mente-cervello. Adattato da Loprete (2021).

Prof. Simone Loprete
Docente di Psicologia Fisiologica
Università degli Studi di Genova
Autore di “Storia e sviluppo delle neuroscienze cognitive. Dalla teoria cardiocentrica alle tecniche di neuroimaging” (Zanichelli, 2021)

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