Parole per fare luce sull’epilessia

Parole per fare luce sull’epilessia

Non è la prima volta che parlo di epilessia. In un precedente articolo [1] avevo accennato al tema in relazione ad un evento svoltosi a Roma, la presentazione di un libro nato dall’esigenza di dare voce a chiunque avesse a che fare con questa patologia, favorendo così il superamento del pregiudizio e della discriminazione.

Già allora, all’apprendere di dover scrivere riguardo a una simile notizia, mi sono trovato in piena sintonia con l’argomento. Nel mio piccolo, sono anch’io un paziente (fortunatamente tra quelli affetti dalle forme più lievi e rispondenti ai farmaci) nonché un profondo sostenitore dell’utilizzo della parola, della conversazione e della scrittura quali mezzi per esprimere emozioni, dubbi, sofferenze, attese e sentimenti che appartengano all’esperienza di cura propria o altrui.

Lo scorso sabato, 3 maggio, ho poi avuto modo di partecipare agli eventi organizzati nella mia città (Torino), nel contesto della Giornata Nazionale per l’Epilessia, annuale appuntamento d’informazione e sensibilizzazione sulla malattia. Il momento più importante, ovviamente, la possibilità di poter assistere alla presentazione del libro cui facevo riferimento prima: A volte non abito qui. Parole per raccontare l’epilessia.

Le testimonianze dal vivo e la successiva lettura del libro che ho subito acquistato, hanno rafforzato in me la convinzione che il concorso letterario sia stato ben più di un esperimento riuscito, bensì un’occasione unica di riflessione su quanto sia importante l’ascolto del malato per occuparsi del suo benessere complessivo e non solo di quello strettamente collegato alle cure o al manifestarsi delle sue crisi.

Essere entrato in contatto con realtà che hanno scelto di abbracciare tra i valori che ispirano il loro quotidiano (sia esso di medico, paziente, parente o volontario) la necessità di rivalutare l’importanza e la qualità della loro comunicazione, mi ha portato a riflettere su quanto sia vitale che questa malattia non si perda nei vaghi confini della definizione “un male come un altro”.

Tra le patologie neurologiche più diffuse, è stata dichiarata malattia sociale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. I dati circa la sua incidenza non sono molto precisi e probabilmente sottostimati perché la patologia è spesso tenuta nascosta per motivi psicologici e sociali. Dai numeri ora a disposizione, si stima una frequenza nei Paesi industrializzati pari a 1 persona su 100 che si traduce, in Europa, in circa 6 milioni di persone e, in Italia, in circa 500.000 pazienti con un’epilessia in fase attiva (cioè con crisi persistenti e/o tuttora in trattamento).

Partiamo dal nome: Epilessia. In lingua greca, il significato di questo termine è “sono preso, sono colto da qualcosa” e, in ambito clinico, è stato associato a una condizione neurologica che può essere di tipo cronico oppure transitorio. Proprio per questa sua natura che la porta a presentarsi attraverso manifestazioni improvvise e potenzialmente ricorrenti (le crisi epilettiche), è più corretto parlare di epilessie al plurale piuttosto che al singolare.

Colpisce a tutte le età, ma ci sono maggiori possibilità che compaia nei giovani e negli anziani. Le crisi sono il risultato di un’alterazione della funzionalità dei neuroni (le più numerose e importanti tra varie tipologie di cellule presenti nel cervello) i quali, normalmente, comunicano mediante un “linguaggio” i cui vocaboli sono impulsi elettrici di diversa intensità. Quando i neuroni, per qualche ragione, diventano “iperattivi” e scaricano impulsi in modo eccessivo (numero e intensità non incluse nel “vocabolario”) si ha una crisi epilettica. Questi scompensi possono riguardare solo alcune aree del cervello oppure anche l’intero organo e, secondo le conoscenze attuali, possono essere il risultato di traumi, lesioni e/o patologie, avere una componente genetica o, infine, non avere ancora trovato una spiegazione.

Le forme di epilessia cosiddette sintomatiche (ovvero quelle in cui sono riscontrabili specifici comportamenti motori volontari o involontari, sensitivi e psichici),sono quelle che trovano più spesso una causa nelle lesioni cerebralisubite in gravidanza o durante il parto, nelle malformazioni del cervello(per un errore di sviluppo corticale), negli esiti di malattie infettivedel sistema nervoso, nei traumi cranicigravi, nei tumori cerebrali e, infine, nell’ictus oin unaltro tipodi malformazioni dei vasi cerebrali.

Aspetto molto importante nella comprensione complessiva della patologia, è venuto dal poter attribuire a molte tra le epilessie fino a qualche anno fa definite senza causa apparente, una correlazione specifica con uno o più difetti genetici e nell’osservare in questi soggetti predisposti, un aumento in frequenza e gravità delle crisi in relazione ad alcuni fattori esterni come gli stress psicofisici eccessivi e le profonde modificazioni del ciclo sonno-veglia (veglie prolungate, risvegli precoci, etc.).

Caso particolare è quello dei bambini che possono presentare crisi epilettiche scatenate da improvvisi rialzi febbrili, ma si tratta in questi casi di crisi provocate e non di casi di epilessia. Le crisi febbrili (meglio note come “convulsioni febbrili”) possono avere una durata inferiore ai 15 minuti e poi risolversi oppure essere ben più lunghe, destinate a ripetersi nelle 24 ore e, solo a volte, essere associate a deficit neurologici.

Ai fini della diagnosi, è utile che il pubblico presti attenzione al presentarsi di episodi sporadici e si rivolga ai centri specializzati presenti su tutto il territorio nazionale per un corretto inquadramento. La raccolta molto completa delle notizie cliniche con l’ausilio dei familiari o di chi ha assistito alle crisi, unita all’esecuzione di esami strumentali come elettroencefalogramma (EEG), risonanza magnetica (RM), TAC e screening genetico, permetteranno di delineare i contorni della patologia e la terapia più adatta.

Il primo approccio alla cura dell’epilessia non può che essere farmacologico, basato sull’utilizzo di farmaci specifici. Fino al 1990 non era disponibile di un numero consistente di molecole ad azione antiepilettica (ora definite “tradizionali”) mentre ora si può usufruire anche di principi attivi di nuova generazione.

Tenendo presente la tipologia di alterazione nervosa alla base di questo tipo di patologia e le forti implicazioni dello stile di vita, una sua correzione e l’entrata in terapia sono spesso accompagnati dalla scomparsa o dalla rarefazione progressiva delle crisi, ma anche da disturbi dati dal farmaco. Ciò rende necessario un profondo coinvolgimento del paziente e dei suoi familiarida parte del neurologo, per far si che non interrompa l’assunzione dei farmaci pensando (a) di essere guarito; (b) di non averne bisogno sino alla prossima eventuale ricaduta; (c) che i benefici immediati della cura non valgano i sacrifici. I presupposti fondamentali, infatti, sono un’assunzione protratta per alcuni anni, la conoscenza profonda degli effetti collaterali per poterli gestire e le eventuali interazioni con farmaci diversi che sta assumendo per altri disturbi.

Esiste, inoltre, un’eventualità che interessa il 20-25% dei pazienti, per i quali le crisi non scompaiono. È definita “farmaco resistenza” e prevede il permanere delle crisi pur in terapia con almeno due farmaci specifici per quel tipo di epilessia (somministrati alla dose giusta e per un adeguato periodo). Una volta accertata, un 15-20% di queste persone pazienti può giovarsi di un intervento neurochirurgico.

La terapia chirurgica delle epilessie consiste nella rimozione (quando possibile senza indurre deficit neurologici) della regione di corteccia responsabile delle crisi (zona epilettogena). Le indagini di routine (EEG), lo studio del tipo di crisi (aspetti clinici) e delle neuro-immagini (TAC, RM), consentono l’identificazione di questa regione cerebrale che, in quasi il 90% dei pazienti candidati a un intervento, sarà rimossa con rischi molto bassi (in genere l’1%): in Italia si calcola che almeno 7000-8000 pazienti l’anno potrebbero essere operati.

In conclusione, si tratta di una malattia da cui si può guarire? Per guarigione completa si dovrebbe ovviamente intendere quella situazione in cui, dopo la sospensione della terapia, le crisi non si ripresentino più. Alcune forme di epilessia del bambino, le più benigne, guariscono completamente, anche senza necessità di terapie. Altre situazioni invece sono tenute perfettamente sotto controllo dalla terapia, ma tendono a ripresentarsi quando si decide di sospenderla (recidive).

Nel caso delle forme resistenti, circa il 70% dei pazienti operati ottiene un ottimo risultato con l’intervento poiché l’assenza di crisi consente in un secondo tempo di ridurre e/o sospendere la terapia farmacologica e di recuperare un’autonomia personale indispensabile al paziente (guida, scuola e lavoro secondo i casi).

Andrea Robotti

Note:

[1] Robotti A., A volte non abito qui, parole per raccontare l’epilessia, BRAINFACTOR, edizione 18-4-2014.

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