C’era qualcosa di speciale nel cervello di Albert Einstein? Forse sì, nel lobo parietale, secondo un nuovo studio in corso di pubblicazione sulla rivista Frontiers in Evolutionary Neuroscience. La ricerca, firmata da Dean Falk, antropologa dell’Università della Florida a Tallahassee, avrebbe individuato alcune formazioni in rilievo sulla parte di corteccia motoria che controlla la mano sinistra (Falk D, New Information about Albert Einstein’s Brain, Front Evol Neurosci, in press 2009).
Simili “bozzi” sono stati correlati alla capacità musicale (e il grande fisico suonava il violino fin dall’infanzia). Ma, soprattutto, è stata confermata la dimensione superiore alla media della corteccia parietale (circa il 15 per cento), con l’individuazione di uno schema di circonvoluzioni piuttosto raro. Falk ipotizza che sia questa configurazione della zona deputata alla cognizione spaziale, matematica e visiva ad aver favorito l’intuizione scientifica e la particolare abilità di concettualizzare i problemi della fisica proprie di Einstein, il quale infatti raccontava di pensare con immagini e sensazioni piuttosto che con le parole. Quanto speculative risultino queste ipotesi è indicato dai primi commenti di altri neuroscienziati, alcuni piuttosto scettici sia sul fatto che possa essere la struttura del cervello individuale a determinare l’intelligenza e la creatività, sia sulle modalità con cui viene studiato la materia grigia del genio del Novecento. La storia dell’encefalo dello scopritore della relatività è infatti alquanto singolare.
Dopo la morte, avvenuta il 18 aprile 1955 al Princeton Hospital, esso fu asportato durante l’autopsia e preso in custodia dal patologo Thomas Harvey, che prima lo trattò per la conservazione, quindi cominciò ad analizzarlo, senza però arrivare a risultati significativi. Tra l’altro, il peso complessivo – 1.230 grammi – sta nella parte bassa dell’intervallo medio dei maschi adulti. In seguito, dopo averlo fotografato e schedato, con l’aiuto di un altro medico, Harvey realizzò 240 sottilissimi campioni che montò su vetrini da microscopio e pose il rimanente in un vaso. I vetrini furono inviati a chi ne faceva richiesta, mentre il vaso seguì il proprietario nei suoi spostamenti per gli Stati Uniti.
Solo nel 1998 il patologo lo consegnò al Medical Center dell’Università di Princeton, dove ora è conservato. Il primo studio con criteri davvero scientifici, basandosi sui reperti e sulle foto, fu realizzato nel 1999. E già allora l’attenzione si focalizzò sui lobi parietali. Il fascino del cervello eccezionale rimane, ma i dubbi sulla possibilità che sveli i suoi segreti – ammesso che ne conservi davvero qualcuno – sono forse maggiori.
Su un libro di biologia lessi che Marion Diamond scoprí che nel suo cervello il rapporto tra cellule gliali e neuroni era diverso dal normale e questo attributo va d’accordo con l’abilità eccezionale di Einstein nell’elaborare informazioni e sintetizzare concetti teorici.
Secondo me bisogna confrontare il cervello di Einstein con quello di altri individui con metodo scientifico e cercare di rendere simile quello della popolazione al suo, magari già in gravidanza.