Neuroscienze controverse: il caso dei neuroni specchio; BrainFactor intervista Vittorio Gallese

Neuroscienze controverse: il caso dei neuroni specchio; BrainFactor intervista Vittorio Gallese.Vittorio Gallese, medico neurologo, è professore ordinario di Fisiologia Umana all’Università di Parma. Fa parte, con Giacomo Rizzolatti e Leonardo Fogassi, del gruppo di ricerca famoso in tutto il mondo per avere scoperto i “neuroni specchio”, insieme a Luciano Fadiga, oggi all’Università di Ferrara. Già ricercatore e docente nelle università di Losanna, Tokyo, Berkely, è membro della European Brain and Behaviour Society, della Cognitive Neuroscience Society, della Società Italiana di Fisiologia e della Società Italiana di Neuropsicologia. I suoi principali interessi di ricerca, orientati alla neurofisiologia e alle neuroscienze cognitive, vertono sullo sviluppo di un approccio interdisciplinare alla comprensione delle basi incarnate dell’intersoggettività e della cognizione sociale e sulla relazione fra cognizione e percezione dell’azione, indagata con tecniche neurofisiologiche e di neuroimmagine. Ha pubblicato oltre 100 studi sulle più importanti riviste scientifiche internazionali.

Marco Mozzoni lo ha intervistato sul tema Neuroscienze controverse: il caso dei neuroni specchio.

Professore, in questi giorni ha dichiarato alla stampa che “la scoperta dei neuroni specchio ha dato parecchio fastidio, perché mette in discussione dei dogmi…” A chi darebbero fastidio i neuroni specchio e quali sono i “dogmi” di cui parla?

Certamente i neuroni specchio danno fastidio a chi guarda alle neuroscienze come a un mero metodo di localizzazione e validazione di meccanismi mentali e/o psicologici ritenuti validi a priori. Quando le neuroscienze producono risultati che mettono in discussione o addirittura confutano questi modelli, la prima reazione è quella di negare l’esistenza di tali risultati. L’atteggiamento del Prof. Caramazza, al di là dei limiti intrinseci del suo recente lavoro, da lui sbandierato come prova della supposta inesistenza dei neuroni specchio nell’uomo, ne costituisce un chiaro esempio. Nel corso degli ultimi 10-15 anni, a partire dalla nostra scoperta dei neuroni specchio nel cervello del macaco, numerose ricerche hanno profondamente modificato sia il modo tradizionale di concepire la relazione tra percezione e azione, sia il ruolo che percezione e azione hanno nella costruzione della cognizione sociale. La scoperta del meccanismo di risonanza motoria dei neuroni specchio ha dimostrato che il sistema motorio, lungi dall’essere un mero controllore di muscoli e un semplice esecutore di comandi codificati altrove, è in grado di assolvere funzioni cognitive che per lungo tempo sono state erroneamente ritenute appannaggio di processi psicologici e meccanismi neurali di tipo puramente associativo. La percezione dell’agire altrui, cioè il riconoscimento che quelli che osserviamo non sono puri movimenti fisici ma atti motori finalizzati caratterizzati da uno specifico contenuto intenzionale, risulta essere una modalità dell’azione, dal momento che si radica nella stessa conoscenza motoria che è alla base della capacità di agire di ognuno di noi. Questo concetto è incredibilmente difficile da accettare da parte delle scienze cognitive classiche, secondo le quali il sistema motorio, per definizione, non può avere attributi di tipo cognitivo. Il meccanismo incarnato dai neuroni specchio ci restituisce invece un’immagine molto più ricca dei processi che sottendono le interazioni sociali, a cominciare da quelle filogeneticamente ed ontogeneticamente di base. La comprensione delle azioni e delle intenzioni motorie altrui resa possibile dal meccanismo mirror mette in discussione l’astratto mentalismo o “mentalese” di non pochi modelli di psicologia cognitiva, primi tra tutti i tanto celebrati moduli della Teoria della Mente. Il dibattito sulla capacità di comprendere gli altri concepita unicamente in termini di lettura della mente altrui è stato per anni sviato dall’assunzione che una volta chiarito cosa serva alla mente per dar ragione del comportamento altrui (gli atteggiamenti proposizionali) e come attribuiamo agli altri tali atteggiamenti proposizionali, quali credenze e desideri (che si suppone essere alla base delle loro azioni), non rimanga che trovare dove dimori nel cervello tutta questa “psicologia”. Così facendo, però, si è finito per dare a una presunta spiegazione psicologica assunta come vera a priori una altrettanto presunta base neurale, lasciando, tuttavia, inspiegati tanto gli effettivi processi psicologici quanto i reali meccanismi neurali che sottendono la cognizione sociale. Per anni ci hanno raccontato che quando siamo chiamati a comprendere il comportamento altrui attiviamo aree specifiche del cervello come la corteccia cingolata anteriore (ACC) e la giunzione temporo-parietale (TPJ) che costituirebbero la sede nel cervello di un supposto modulo della Teoria della Mente. Tutto ciò è falso. E’ stato infatti dimostrato che tali aree si attivano anche per compiti del tutto scorrelati dalla “lettura della mente” altrui, come l’attenzione, o addirittura l’eccitazione sessuale. Questa è la frenologia del ventunesimo secolo! E ad incarnare questa frenologia “high-tech” vedo più gli psicologi cognitivi (che, mediamente, di come è fatto il cervello e come funziona sanno poco o nulla) che i neuroscienziati che, almeno, si pongono il problema di capire quale sia il meccanismo neurofisiologico che determina l’attivazione di un dato circuito corticale durante un dato compito. La verità è che nessuno ha la più pallida idea del perché aree corticali come la ACC e la TPJ si attivino sistematicamente anche durante compiti di mentalizzazione. E sa perché? Perché a tutt’oggi non conosciamo il meccanismo neurofisiologico che ne determina l’attivazione.

Sempre qualche giorno fa il Prof. Alfonso Caramazza ha dichiarato all’ANSA: “è improbabile che i neuroni specchio giochino un ruolo in funzioni complesse come empatia e comprensione del linguaggio o nella spiegazione di patologie cognitive come l’autismo”. Mi sembra una affermazione di non poco conto, se pensiamo all’entusiasmo che hanno provocato negli ultimi anni i neuroni specchio, anche oltre i confini delle neuroscienze in senso stretto: ne hanno scritto abbondantemente filosofi, sociologi, gente di marketing… Se fosse vero quello che sostiene il Prof. Caramazza, avrebbero fatto tutti un bel buco nell’acqua, o no? Ci può spiegare qual è esattamente l’oggetto del contendere?

L’oggetto del contendere è l’esistenza dei neuroni specchio nel cervello dell’uomo. Il Prof. Caramazza, sulla base dei risultati del lavoro che ha appena pubblicato, sostiene di potere provare che essi non esistono. Come questo sia conciliabile con le sue affermazioni, da lei appena ricordate, mi sfugge completamente. Delle due l’una: o i neuroni specchio nell’uomo non esistono, e quindi non ha senso chiedersi se possano spiegare alcunchè; oppure esistono, ma non spiegano ciò che pretendono di spiegare. Dire come fa il Prof. Caramazza “che non esistono e che non spiegano” è privo di senso logico, un non sequitur. La mia posizione è chiara e netta: la prova definitiva dell’esistenza di neuroni specchio nell’uomo potrà venire solo ed esclusivamente dalla loro registrazione diretta, ottenibile con metodiche invasive e per questo di difficile ma non impossibile realizzazione. Credo sia solo questione di tempo. Fino a quel momento, speculare sulla loro esistenza è legittimo. Non è invece legittimo affermarne l’inesistenza sulla base di dati come quelli prodotti dal Prof. Caramazza. Devo aggiungere che le evidenze scientifiche indirette circa la loro esistenza nell’uomo sono attestate da un impressionante numero di lavori scientifici internazionali ottenuti con tecniche d’indagine le più diverse, quali PET, fMRI, TMS, EEG e MEG. Il lavoro di Caramazza e colleghi non intacca assolutamente queste evidenze sperimentali. La presenza nel cervello umano di un meccanismo riconducibile ai neuroni specchio rappresenta la spiegazione unificante più parsimoniosa di una serie di diversi dati comportamentali e clinici. Inoltre, i neuroni specchio esistono incontrovertibilmente negli uccelli e nelle scimmie. E’ pertanto altamente improbabile che un meccanismo rivelatosi adattativo, tanto da essere stato conservato nel corso dell’evoluzione in specie evolutivamente così lontane, venga poi ad essere cancellato proprio nella nostra specie. Ma quello che più mi ha colpito negativamente di tutta questa vicenda non sono i risultati scientifici, che come ho già avuto modo di sostenere pubblicamente sono del tutto irrilevanti nel provare l’inesistenza dei neuroni specchio nell’uomo. Ciò che è inaccettabile è che per pubblicizzare un nuovo centro Italiano di Neuroscienze, quale quello di Rovereto diretto dal Prof. Caramazza, si decida di scatenare una campagna mediatica, convocando i giornalisti per dire quello che il Prof. Caramazza ha detto sulla base dei dati prodotti.

E’ un po’ duro nei suoi confronti…

Voglio ricordare che tra le tante cose che ha detto, il Prof. Caramazza ha anche sostenuto che l’ipotizzato collegamento tra un deficit o un malfunzionamento dei neuroni specchio e l’eziopatogenesi dell’autismo infantile “è sbagliato e ingiusto, perché alimenta le speranze delle famiglie che hanno figli malati”. Trovo questa affermazione del tutto ingiusta, intollerabile e indegna. Siamo vicinissimi alla diffamazione a mezzo stampa. Chi ha letto i nostri lavori scientifici e chi ha assistito alle comunicazioni a convegni scientifici in Italia o all’estero di membri del nostro gruppo sa con quale prudenza e cautela abbiamo affrontato e continuiamo ad affrontare questo argomento. Siamo di fronte non ad una semplice disputa scientifica, che è il sale dell’approccio scientifico allo studio del reale, ma a qualcosa di diverso. Si nota in tutta questa operazione un livore, un compiacimento polemico, e la ricerca dello scandalo scientifico per lo scandalo in una misura che non mi era mai capitato di riscontrare in trenta anni di attività. Temo che tutta questa operazione si ritorcerà come un boomerang contro il Prof. Caramazza, e di questo può importarcene non molto. Ciò che invece è grave, è che questa “tempesta in un bicchiere d’acqua” rischia di non giovare alla credibilità scientifica di un nuovo centro di neuroscienze cognitive su cui si sono investiti ingenti somme di denaro nonchè grandi e giustificate aspettative di sviluppo. Se ciò si verificasse mi dispiacerebbe molto, visto che sono così poche le occasioni in cui si investe nella ricerca nel nostro paese.

Forse non ha fatto meglio chi è stato, per così dire, alla finestra e ha proceduto per la sua strada? Intendo filosofi e fenomenologi “puri”, che, pur ammettendo l’importanza di un dialogo fra le diverse discipline, soprattutto quando si tratta dell’umano, hanno però marcato i loro territori, invitando in sostanza ciascuno a “fare il proprio mestiere”…

Che ognuno debba parlare delle cose che conosce e tacere di ciò che non sa rimane un precetto sempre valido e attuale. La presente vicenda lo dimostra. Tuttavia si dovrebbe chiarire cosa si intende per “fare il proprio mestiere”. Indagare le basi neurofisiologiche della cognizione sociale è per le neuroscienze cognitive precisamente “fare il proprio mestiere”. Penso che il tema dell’intersoggettività non possa essere affrontato e risolto in modo univoco né dalla sola filosofia né dalle neuroscienze o dalla psicologia, ma richieda invece un approccio multidisciplinare. Da anni mi impegno per creare tra queste discipline occasioni di dialogo, volto soprattutto a sviluppare per quanto possible un linguaggio comune. Credo che questo dialogo non solo continuerà, ma si svilupperà ulteriormente. Non ci servono accademici affacciati in modo compiaciuto ed appagato alle finestre dei propri angusti settori scientifico – disciplinari, ma ricercatori curiosi di esplorare nuovi territori collaborando con e traendo ispirazione anche da discipline che del proprio campo d’indagine offrono prospettive diverse.

Secondo Lei dove sbaglia il Prof. Caramazza, sull’assunzione di fondo del suo “dubbio” sui neuroni specchio, derivatagli dalle indagini condotte con la tecnica dell’fMRI adaptation – come sottolinea Marco Iacoboni –  o sul fatto che “con soli 12 soggetti non si può parlare di uno studio serio”, come scrive un commentatore sul New Scientist?

Credo che l’intrinseco limite del lavoro del Prof. Caramazza e dei propri collaboratori consista prorpio nella metodica sperimentale che hanno scelto per verificare sperimentalmente l’esistenza o meno dei neuroni specchio nel cervello umano. Potrei rispondere che l’anno scorso il gruppo della Prof. Nancy Kanwisher dell’MIT di Boston, con la stessa metodica adottata dal Prof. Caramazza, ha pubblicato risultati di segno opposto, cioè che provavano in maniera incontrovertibile l’esistenza di neuroni specchio nell’uomo. Ma il punto è un altro. La metodica dell’fMRI adaptation non è in grado di verificare sperimentalmente in modo attendibile l’esistenza o l’inesistenza di alcun meccanismo neurale descritto a livello neurofisiologico. Questo non lo affermo io, ma lo ha scritto l’anno scorso assieme ai suoi collaboratori in un lavoro uscito su Trends in Neuroscience il Prof. Logothetis, direttore dell’Istituto Max Planck di Tubingen, probabilmente la maggiore autorità scientifica in campo mondiale su queste tematiche. In sostanza stiamo discutendo del nulla.

Perché i neuroni specchio riescono sempre ad attirare così tanta attenzione? Che cosa li rende così affascinanti?

Non so se i neuroni specchio siano affascinanti. Oggi in realtà vi è una grande crescente e generalizzata attenzione nei confronti delle neuroscienze cognitive. L’interesse per i neuroni specchio credo che ne costituisca solo un caso particolare. Il grande pubblico, grazie anche alla divulgazione operata da mezzi di comunicazione come questa testata, si sta rendendo conto di quanto sia importante il ruolo delle neuroscienze cognitive nel farci scoprire chi siamo e come funzioniamo. Ciò detto, sicuramente i neuroni specchio attirano l’attenzione di un pubblico fatto di non specialisti anche perchè dimostrano come una delle principali modalità con cui ci mettiamo in contatto con gli altri e ne comprendiamo l’agire sia quella empatica, qualcosa che sentiamo vicino e che comprendiamo più e meglio delle inferenze logiche e delle sofisticate operazioni metarappresentazionali che, secondo una lunga tradizione di pensiero in psicologia, sole spiegherebbero in cosa consista l’intersoggettività. Dopo la nsotra scoperta dei neuroni specchio si è cominciato a indagare neuroscientificamente l’intersoggettività e le sue alterazioni patologiche anche da questa prospettiva più di base e legata alla corporeità. Ciò ha anche contribuito non poco a riattualizzare e rivitalizzare tradizioni filosofiche quali la fenomenologia che negli ultimi 50 anni erano state ingiustamente emarginate.

Vi è un “limite di applicabilità” della teoria dei neuroni specchio alle questioni umane?

Certo che sì! Personalmente non ho mai sostenuto che i neuroni specchio spieghino tutto quello che c’è da spiegare circa la cognizione sociale. I neuroni specchio consentono, questa almeno è la mia ipotesi, di comprendere aspetti di base dell’intersogettività, sia da un punto di vista filogenetico che ontogenetico. La comprensione di questi aspetti di base dell’intersoggettività può avere importanti ricadute anche sulla comprensione dei meccanismi alla base delle forme più sofisticate di cognizione sociale. E’ un problema empirico capire fino a che punto ci si possa spingere utilizzando il meccanismo dei neuroni specchio come chiave di lettura della cognizione sociale. Fortunatamente questo non è un argomento di fede, ma qualcosa di verificabile in modo empirico.

Non ritiene eccessiva la quantità di libri che ultimamente si vanno pubblicando, da persone con i più disparati interessi di ricerca e professionali, che fanno riferimento alle neuroscienze? Non si rischia di cadere in facili (e fuorvianti in qualche caso) semplificazioni?

La divulgazione scientifica è sempre utile purchè fatta in modo corretto. Credo che nel nostro paese ce ne sia un estremo bisogno. Se i libri che trattano argomenti scientifici in modo accessibile ad un pubblico vasto aumentano non può che derivarne un vantaggio per la società. Gli scienziati dovrebbero impegnarsi di più in questo ambito oltre che vigilare a che il proprio messaggio non venga distorto.

Un recente volume di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, Neuro-manie, riporta in copertina una affermazione quantomeno singolare per l’Autore di uno dei primi manuali italiani di neuroscienze: “il cervello non spiega chi siamo”. Secondo Lei, in che modo il cervello può o potrà un giorno spiegarlo?

Non condivido questa affermazione, non condivido molte delle tesi sostenute in quel libro, così come non condivido l’opportunità di una simile operazione culturale oggi nel nostro paese. Dopo anni di geremiadi contro la scienza e la tecnica, dopo la deleteria predicazione favorente una rigida separazione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, l’operazione di Legrenzi e Umiltà rischia di mandare ancora più indietro il nostro paese dal punto di vista della cultura scientifica. Certamente le accoglienze più favorevoli il libro di Legrenzi e Umiltà le ha ricevute in ambiti extra-scientifici, come una recensione entusiasta pubblicata in prima pagina sull’Osservatore Romano. Condivido il loro allarme circa un uso disinvolto delle tecniche di brain imaging. Non condivido, tuttavia, il bersaglio contro cui Legrenzi ed Umiltà dirigono i propri strali, cioè le neuroscienze cognitive. La polemica aperta dal Prof. Caramazza dimostra proprio il contrario. E’ quando queste tecnologie e complicate metodiche sperimentali sono utilizzate dagli psicologi (che come dicevo prima spesso il cervello lo conoscono poco e male) che si corrono rischi maggiori di dire cose imprecise o addirittura false. La spiegazione  neuroscientifica di un tratto comportamentale o cognitivo non si riduce alla semplice localizzazione, ma è tale solo nella misura in cui individua i meccanismi neurofisiologici che rendono possibile l’attivazione di un dato circuito cerebrale durante l’esecuzione di un compito specifico. Questo, come sostenuto anche dal prof. Logothetis nell’articolo che citavo prima, è il contributo specifico che viene dalle neuroscienze cognitive. Se manca questo, si rischia di parlare a vanvera. Proprio questa settimana il gruppo di Michael Platt della Duke University ha scoperto nella scimmia l’esistenza di neuroni specchio che sostengono l’attenzione condivisa, un meccanismo cruciale per la cognizione sociale, dimostrando una volta di più quanto la nostra scoperta spieghi aspetti cruciali dell’intersoggettività nei primati. Trovo abbastanza ironico e forse anche un po’ triste che invece che dibattere queste affascinanti tematiche, siamo qui a discutere della tempesta in un bicchier d’acqua innescata dall’offensiva mediatica del Prof. Caramazza.

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Marco Mozzoni
Direttore Responsabile

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