Quale Etica per la Neuroetica?

Il Cervello Socratico implicato nella proposta di Roberta De Monticelli

“Il valore e il corrispondente vederci sono la vera essenza della vita mentale umana” (W. Koehler, 1938)

Nei giorni 18, 19 e 20 maggio 2016 si terrà Padova l’VIII Convegno Internazionale di Neuroetica “Il cervello emotivo e il cervello razionale. Frontiere della Neuroetica”. Si vuole qui provare a sostenere che il recente saggio di Roberta De Monticelli, Al di qua del bene e del male, possa essere di grande utilità per l’evoluzione della ricerca neuroetica, certamente nella prospettiva della formazione delle nuove generazioni.

Le due occasioni consentono di ripresentare la domanda del titolo, le cui possibili risposte sono rimaste sempre sospese. E – com’è giusto che sia – rimarranno ancora sospese.  A rendere pertinente il quesito è proprio lo specifico tema del Convegno padovano di quest’anno. Insomma, dalla prospettiva della Neuroetica, quale etica è configurabile nell’esplorazione del cervello emotivo e quale etica si manifesta meglio nell’esercizio del pensiero razionale, posto che vi sia – tra i molteplici campi d’indagine di questo ambito di ricerca- anche quello di osservare la relazione che viene a costituirsi, per esempio, tra stimolazione etico – morale ed attivazione dei correlati neurali indotti dall’emozione e che inducono l’emozione; ed anche, naturalmente, della relazione tra stimolazione etico – morale ed esercizio del pensiero razionale.

Quello che sembra necessario per la Neuroetica – proprio perché è una specificazione delle tante dimensioni delle neuroscienze cognitive che vede l’etica costituirsi come visione permanente nel multiverso delle sue indagini- è che essa si doti degli strumenti e delle abilità connessi a una sorta di guerriglia etica; che è come inforcare gli occhiali per vedere. Che è come gettare luce, volta per volta, su percetti che, diversamente, resterebbero come puri eventi tecnico-scientifici; i quali sono solo un aspetto degli interessi della Neuroetica.

Il libro di Roberta De Monticelli (2015) – letto in correlazione con i contributi, richiamati nel testo di Berlin (1998) e di Dworkin (2013),oltre quelli dei grandi fenomenologi- si costituisce come un vero e proprio manuale di guerriglia etica. Insomma in uno strumento da tenere in conto per chi voglia avventurarsi nel tentativo di fondare una Neuroetica come  nuova scienza umana su basi neurofenomenologiche, e  che dunque  recuperi, insieme alla proposta di Varela (2006), la Fenomenologia di Husserl e quella “ dell’altro fondatore” del metodo fenomenologico che è Max Scheler.

Verso un’etica come teoria dell’indagine neuroetica

Parte dell’epigrafe, su riportata, che Roberta De Monticelli premette nella sua interezza al Capitolo quinto de suo libro costituisce una limpida testimonianza della perorazione che qui vien posta: che occorre pensare ad un’ etica e ad una morale che aiutino a capire se stesse. Se poi la vita mentale ha una sua essenza la cui comprensione è data dal valore e dalle operazioni che compiamo per “vederci chiaro”, porsi sul sentiero della ricerca dei correlati neurali del giudizio morale e dell’etica costituisce –come i precedenti Convegni di Neuroetica hanno già dimostrato- una propria specifica impresa; e ciò è di grande rilievo, almeno per quelle dimensioni che hanno a che fare con i processi delle persone coinvolte, in varie funzioni, nelle attività dei contesti formativi.

Occorre allora ripresentare una fondamentale domanda, rispetto a una dimensione in cui la neuroetica circoscrive il suo campo di pertinenza sui correlati neurali del giudizio morale: Quale etica per la neuroetica?

A ben riflettere, ricordando ciascuno le personali esperienze dei primi studi, la risposta richiama in causa, quasi immediatamente, Socrate e il suo metodo. Ma di quale Socrate, fermo restando il valore generale del suo metodo? Roberta De Monticelli ci aiuta nell’impresa, a partire dal compiere distinzioni. Intanto, come richiamare in campo Socrate se Socrate è stato costretto alla latitanza, in ordine soprattutto a quelle idealità che nel muovere e sommuovere i processi cognitivi sono all’origine -specifichiamo qui- delle intensità sinaptiche che, spinte in direzione talamo-corticale, fanno la differenza rispetto alla comprensione?

Sta che la maggior parte <<dei filosofi del secolo scorso e di quello in corso ha concepito l’idealità o come semplice eredità culturale o come postulato del volere […] e non come una questione di prova ed errore, di sofferenza e di scoperta>> (id. p. 33). Ecco uno dei tanti passaggi che legittimano la ricerca di un’etica e di una morale per la neuroetica. Problema che Roberta De Monticelli non pone nell’esplicita prospettiva della neuroetica, ma il problema che pone la implica; sia per la sua metodologia enattiva e neurofenomenologica nel senso di Varela, sia per la sua frequentazione con taluni problemi delle neuroscienze e della neuropsicologia (De Monticelli 2012 p.263 e ss.). Quello che si vuole sostenere è che in particolare Al di qua del bene e del male è opera fruibile dalla Neuroetica, che ha bisogno di un’etica militante e laica.

Nel senso che se è vero che per le neuroscienze cognitive le stimolazioni di primo impatto sono egemonizzate dal cervello emotivo e che solo in seguito, con l’intervento del cervello razionale, è possibile registrare una consapevolezza più profonda dei significati dell’esperienza, c’è da chiedersi cosa e chi possa determinare la transizione dei dati dall’emozione alla ragione e come salvaguardare in tale passaggio la preziosa funzione di quel nesso per cui l’etica nasce dall’emozione (Maturana e Dàvila 2006)?

La risposta non può che risiedere in una molteplicità di ricorsi, sintetizzabili in quello che Roberta De Monticelli perora come rinascita del Metodo Socratico e che la neuropsicologia, certamente per una specifica dimensione, chiama Ridescrizioni Rappresentazionali (Karmiloff-Smith 1995), implicando nel ritorno a Socrate di Roberta De Monticelli quelle ragioni emotive che arricchiscono le visioni, invece che sterilizzarle in una prevalente, esclusiva, razionalità. E che possono indurre alla riflessione etica.

Intanto una precisazione: gli standard morali <<prescrivono come dovremmo trattare gli altri>>; mentre gli standard etici indicano <<come dovremmo vivere noi>> (Dworkin 2013, p. 221). E’ proprio qui che s’innesta la riflessione etica socratica. Socrate sa come deve vivere Socrate e mostra uno stile esplicativo di come trattare gli altri, attraverso un esempio paradigmatico di drammatica coerenza.

Di là dalle differenze, che sono ad effetto tutt’altro che neutralizzante, le due concezioni sono unite dall’implicare entrambe un progetto interpretativo. Mediante il quale è possibile pervenire – nelle descrizioni e ridescrizioni, oltre che nell’uso di confronti ad effetto strategico- ad un aumento della consapevolezza dei significati comportamentali e delle loro valenze etiche e morali.

L’osservazione heideggeriana per cui in un tale progetto <<l’interpretazione ha un intento puramente ontologico, ed è del tutto estranea ad ogni critica moralizzante dell’Esserci quotidiano>> (Heidegger 1927- 1971, p. 211) e dunque permanendo, tale opzione, esclusivamente sul terreno  razionale, conferma che se nell’opera fondamentale dell’autore di tale enunciazione vi è una forza etica, e cioè dell’essere come dovremmo essere, in tale forza però <<si può deplorare la carenza morale>> (Ricoeur 1992, p.50); e cioè – per restare nella citata distinzione di Dworkin – vi è carenza di come dovremmo trattare gli altri. E forse sarebbe il caso di evidenziare il tono sprezzante di Heidegger per ciò che riguarda la morale.

Solo di sfuggita, si può comprendere qui la insensibilità di Heidegger verso le opzioni morali, rimasto –nella migliore delle ipotesi- osservatore neutrale del genocidio degli ebrei, a fronte di una potente, ontologica perorazione dell’etica; ovvero di come dovremmo essere noi, che però non lo sottrae al dubbio di una disconnessione nelle aree delle cortecce prefrontali, nel settore centromediano di queste (vedi Damasio 1995, p.78), simile a quelle di cui soffrirono i pazienti Gage ed Elliot (id., pp.31-93).

In quest’ultimo (Elliot) la sindrome fu sintetizzata nel <<Sapere ma non sentire>>, mentre in quella di Gage la sindrome del non sentire era fortemente connessa all’insensibilità morale. Se queste asserzioni possono risultare offensive per il più grande filosofo del Novecento, esse mostrano una qualche pertinenza se si tengono in conto affermazioni di Hanna Arend riportate in  Maletta (2009, p. 14).

E comunque il discorso ha valenza generale, rispetto al valore umanizzante della consussistenza del sapere e del sentire. E, non a caso, è proprio Roberta De Monticelli ad essere –tra i filosofi italiani- la più fiera critica verso l’inconsistenza morale di Heidegger, che sapeva tanto. E come tutti quelli che sanno e si fanno restii al <<risvegliarsi della capacità di sentire –di soffrire, dunque, anche- senza la quale è abolita infine la percezione della differenza fra bene e male>> (De Monticelli 2007, p. 96), si candidano –pur nello splendore del successo accademico- alla cecità del valore. Fatto questo che dalla prospettiva di Varela è imperdonabile, perché il “sapere obbliga”. A meno che non prenda consistenza l’ipotesi di una sofferenza neurologica dell’autore di Essere e tempo.

La funzione dei dilemmi morali

Necessariamente, occorre circoscrivere il campo di applicazione del “come dovremmo trattare gli altri” (prospettiva morale) e del “come dovremmo vivere noi” (prospettiva etica) nello svolgimento di singoli progetti interpretativi centrati su giudizi di valore. Lo strumento più idoneo sembra essere, per il primo aspetto, quello dei dilemmi morali; e quello dei percorsi introspettivi o, più semplicemente, dell’autoconsapevolezza autocritica, per il secondo. Ove la ricerca neuroetica volesse sperimentare, mediante le tecniche dell’imaging cerebrale, quali correlati neurali si attivino nei processi interpretativi, magari andando oltre i dilemmi della carrellologia (Hauser 2007), Edmonds 2014), le risposte ai quesiti avrebbero solo una parte delle evidenze possibili. Le ulteriori evidenze si avrebbero se si potessero osservare le implicazioni connesse alla fenomenologia del trial and error, ovvero di quanto può derivare dai confronti interpretativi di più punti di vista, attraverso i quali si  transita per convincimenti provvisori, di prova, sul medesimo oggetto;  per giungere alla possibilità che il conflitto delle visioni  generi anche sofferenza e, talora, la scoperta di cose prima non viste.

Quali sono i dilemmi idonei e da cosa è data la loro idoneità? Ci riferiamo qui a dilemmi come quello detto di Heinz, reperibile in Arto (1984, p. 124), o più semplicemente ai quesiti morali da far derivare dalle favole di Esopo. Quelli della carrellologia prevedono sempre che qualcuno venga buttato sotto un carrello per impedire che vengano falciate quattro o cinque persone; lo stesso dilemma di Heinz, leggibile in varie versioni in rete, pone in una drammatica condizione il personaggio che, per questo, fa veicolare già in una certa direzione il giudizio (la moglie di Heinz  è affetta da un male incurabile e il marito non avendo i soldi per curarla, e non avendo ottenuto credito dal farmacista, è costretto a rubare una medicina salvavita).

In alternativa socratica, i dilemmi derivati dai testi di Esopo -trattando in forma non drammatica gli eventi, anche grazie alla mediazione stemperante delle figure di animali- consentono una riflessione pacata e una valutazione delle ragioni che favoriscono il ragionamento morale, e dunque il giudizio trial and error;  e non la presa d’atto di ciò che è già evidente (vedi Aprile 2012, pp. 223-248).

La dimensione emotiva, quella che crea anche sofferenza e che consente l’insigth della scoperta, deve scaturire dalla drammaticità del confronto interpretativo, condotto da un esperto della non intrusività nei gangli delle decisioni morali; queste dovranno essere solo prodotte dal focus intorno al quale si coagulano i dati in gioco. E se è vero, in senso ampio, che l’etica sorge dall’emozione  l’emozione non può essere già data da una condizione di per sé veicolante. Ma deve emergere dal crogiuolo delle interpretazioni. O dalla comunicazione significativa (vedi id., pp. 444-447).

Il valore e il vederlo costituisce, per dire in sintesi l’epigrafe di Koehler assunta da Roberta De Monticelli, il sale della vita mentale. Ma dove si coglie con evidenza il valore se non nelle idealità e nelle prassi della democrazia, intesa come <<civiltà fondata in ragione – la ragione pratica>> (De Monticelli, op. cit., p. 180)? Disconoscere ciò <<è semplicemente la fine della democrazia>> (id). Dunque, la prevalenza dei valori nel mondo dei fatti comporta in conseguenza una sana vita mentale, possibile nell’orizzonte dell’esercizio del cervello socratico.

Il cervello socratico

Cervello emotivo e cervello razionale: si stanno sostenendo le ragioni di un’integrazione tra dimensioni funzionali, apparentemente contrastanti. Se assumiamo il fatto che i due funzionamenti nei problemi fondamentali della vita possono essere compresenti o consecutivi l’uno all’altro, la risposta può essere affermativa. Va considerato qualche modello esplicativo del problema: quello della neurofenomenologia enattiva della mente incorpata e quello del cognitivismo assiologico, riconducibili ad una ipersintesi dell’integrazione: quella socratica. Dove l’attività del cervello si fa unitaria, rispetto a quelle concezioni che considerano i processi emotivi a sottoprodotti delle valutazioni cognitive. Naturalmente, ci riferiamo al metodo socratico, qui visto nella prospettiva della psicologia della morale, e dei confronti interpretativi sui dilemmi morali (cfr. Paolicchi 1987).

Il cervello razionale si fa artefice della razionalità. Ma di quale? Seguendo Edgar Morin (2012, p. 134), esistono almeno quattro forme di razionalità: 1) la razionalità critica, che si avvale delle possibilità del dubbio; 2) la razionalità teorica, utile alla costruzione di teorie per la comprensione coerente dell’esperienza; 3) la razionalità autocritica, che evita l’eccesso di razionalizzazione; 4) la razionalità strumentale, che può mascherare le imprese nocive. Il cervello razionale può compiere tutte queste possibilità; ma perché esse s’inverino a favore dei processi di aumento della umanizzazione dell’uomo occorre che intervenga un correttivo linfatico, derivato dal cervello emotivo, nel senso dell’emozione che colora gli eventi, mitigando o disarmando l’eccesso di razionalità.

In altri termini, la condizione perché il cervello emotivo possa utilmente interagire col cervello razionale è allora quella di ripensare ai possibili prodotti della razionalità. Qui ci si accorge che questi sono carenti di prospettiva morale e che, pertanto, l’inserzione del correttivo  è possibile farlo emergere dal crogiuolo dell’attività del cervello emotivo, insomma dall’emozione. Nelle strategie dell’educazione enattiva il metodo socratico -che si avvale del “faccia a faccia” e del delfico “conosci te stesso”- aiuta la comprensione del dubbio, la costruzione di teorie per l’esistenza, a ridurre l’eccesso di razionalizzazione e  può invalidare quella mortale, demente razionalità strumentale di Auschwitz.

Il fatto che il cervello pensante si sia evoluto da quello emozionale non rende per niente dominante il primo, né sancisce la sudditanza del secondo. Nell’orizzonte della Neurofenomenologia, e della  Neuroetica come nuova scienza umana, occorre assumere la verificata esperienza di Damasio, secondo la quale <<l’emozione è parte integrante dei processi del ragionamento e della decisione>> (Damasio 2000, p. 57). L’intero saggio citato di Roberta De Monticelli si presenta come dimostrazione coerente di argomentazioni che hanno sempre compresenti ragione ed emozione. Ed è per questo che la sua perorazione del recupero di Socrate si costituisce come metafora di cervello emotivo e cervello razionale interagenti nel cervello socratico: un’antica frontiera, rimasta sostanzialmente inesplorata, e che può fare da argine alla dilagante insensibilità morale dell’Europa che non riesce a vedere che negli immensi campi di concentramento di migranti si replicano quelle dementi razionalità strumentali da noi tutti condannate ma di cui ci stiamo  ottusamente circondando.

Fortunato Aprile

Bibliografia

  1. Aprile F. (2012), L’alunno furgoncino e l’alunno carrarmato. Una didattica enattiva per ridurre gli errori in educazione, Roma, Armando.
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  6. De Monticelli R. (2012), La novità di ognuno, Milano, Garzanti.
  7. De Monticelli R. (2007), Sullo spirito e l’ideologia, Milano, Baldini Castoldi Dalai.
  8. Dworkin R. (2013), Giustizia per i ricci, Milano, Feltrinelli.
  9. Edmonds D. (2014), Uccideresti l’uomo grasso?, Milano, Cortina.
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  14. dell’esistenza?, Milano, Jaca Book, 2009.
  15. Maturana H., Dàvila X. (2006), Emozioni e linguaggio in educazione e politica, Milano, Elèuthera.
  16. Morin E. (2012), La via. Per l’avvenire dell’umanità, Milano, Cortina.
  17. Paolicchi P. (1987), Homo ethicus, Pisa, Ets.
  18. Ricoeur P. (1992), Il problema etico in Heidegger, in F. Bianco (a cura di), Heidegger in
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  20. Varela F. (2006), Neurofenomenologia, in M. Cappuccio (a cura di), Neurofenomenologia, Milano,
  21. Bruno Mondadori, 2006.

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