Neurologi in prima linea… BrainFactor intervista Diego Papurello

Neurologi in prima linea... BrainFactor intervista Diego Papurello.La professione di neurologo pone grandi interrogativi a chi la pratica: sui propri limiti di fronte al dolore e alla sofferenza, sulla gestione della relazione con i pazienti, su questioni etiche fondamentali… Sono elementi di riflessione forti che possono diventare parte della formazione professionale, se si sanno mettere in gioco risorse personali, razionali ed emotive. Ne parliamo con Diego Papurello (nella foto), primario di Neurologia all’Ospedale di Ciriè (TO).

Diego Papurello, torinese, medico internista con specializzazione in Neurologia, si è occupato fin dall’inizio della sua carriera delle complicanze neurologiche delle malattie internistiche e di Neurofisiologia clinica; negli ultimi anni si è occupato in particolare di malattie cerebrovascolari e di malattie neurodegenerative presso la  Struttura Complessa di Neurologia dell’ASL Torino 4, di cui è direttore. Nella sua attività ha curato in particolare l’integrazione fra Ospedale e territorio, anche mediante una intensa attività di formazione rivolta ai medici di famiglia.

Dottor Papurello, vorrei che ci raccontasse la sua esperienza personale di clinico e le difficoltà che il neurologo può incontrare nella pratica quotidiana, soprattutto di fronte a malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e il Parkinson… Quali sono i problemi più gravosi che deve affrontare chi svolge il suo lavoro?

Le malattie neurodegenerative costituiscono un grande problema da molti punti di vista: la loro conoscenza, dal punto di vista eziopatogenetico è ancora incompleta, nonostante i non pochi progressi fatti negli ultimi tempi. La loro importanza epidemiologica è in crescita, ma purtroppo rimane scarsa, almeno al momento, la disponibilità di terapie efficaci per contrastarle. Un’altra difficoltà riguarda l’inquadramento diagnostico, specialmente nelle fasi iniziali: il quadro preciso di un “parkinsonismo” si definisce solo dopo un lungo decorso e non è facile differenziare gli stadi iniziali di una demenza dal normale decadimento psichico di un anziano. In alcuni casi è persino difficile stabilire se il paziente sia affetto da una malattia psichiatrica o neurologica: la depressione dell’anziano, ad esempio, può essere scambiata per una forma demenziale e viceversa.

C’è poi la gestione del rapporto con il paziente e con i suoi familiari…

Un altro aspetto potenzialmente difficile di questo lavoro è nella gestione del rapporto con il paziente e la famiglia: la mancanza di mezzi terapeutici efficaci può rendere frustrante il rapporto con l’assistito e con i suoi famigliari che, a poco a poco, tendono a perdere la fiducia nel medico, vista la mancanza di mezzi terapeutici risolutivi. Infine ci sono da considerare gli aspetti etici: la malattia neurologica ci obbliga a riflettere sull’utilità di molti nostri interventi mirati a prolungare la sopravvivenza di pazienti in fase avanzata di malattia: penso ad esempio alla tracheotomia o alla ventilazione assistita per pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA).

Buona parte dei risultati della ricerca scientifica sono indirizzati per lo più alla pratica clinica nella quale vengono recepiti: in che misura avviene invece il procedimento inverso? Quanto ciò che quotidianamente emerge dalla pratica medica viene tenuto in considerazione nell’ambito della ricerca?

Accanto alla ricerca “from bench to bed”, viene attivato il percorso opposto, quello “from bed to bench”. In pratica, si parte  dalle conoscenze che si hanno della patologia, osservata in clinica, e si creano modelli sperimentali, variabili, di malattia cercando di rispondere ai quesiti posti dai clinici. E’ essenziale per questo la reciprocità: il ricercatore deve conoscere i problemi che il clinico si trova ad affrontare tutti i giorni e il clinico deve conoscere quanto può fare il ricercatore. Il dialogo fra i due soggetti è di assoluta importanza.

Può farci un esempio di scambio riuscito tra clicnici e ricercatori?

Mi rifaccio a un esempio storico: negli anni 50 i clinici che curavano con l’iproniazide i pazienti affetti da Tbc osservarono che alcuni di questi, che erano depressi prima dell’assunzione del farmaco, presentavano, generalmente dopo il trattamento e alcuni già nel corso dello stesso, un notevole miglioramento del tono dell’umore. L’osservazione venne recepita dai farmacologici, che dimostrarono in seguito come l’attività antidepressiva del farmaco fosse attribuibile all’inattivazione  dell’aminossidasi. Questa osservazione fornì le basi per l’interpretazione neurotrasmettitoriale della depressione e per la progettazione di farmaci antidepressivi più efficaci.

Ci sono diversi modi in cui le persone si adattano alle loro disabilità. Il neurologo Oliver Sacks in uno dei suoi ultimi libri, Musicofilia, cita il paziente afasico che però riesce a comunicare attraverso il canto. Quanto è frequente, nella sua esperienza, che una funzione cerebrale danneggiata venga “compensata” dall’intervento sinergico di altre aree?

La possibilità che grazie alla plasticità neuronale si possa compensare una funzione lesa in seguito ad un evento acuto è oggi dimostrabile sia clinicamente sia mediante la risonanza magnetica funzionale. E’ ipotizzabile che tale procedimenti siano operanti anche nel caso di malattie a decorso cronico progressivo, nelle quali la sintomatologia clinica compare quando almeno il 70% dei neuroni di un determinato “sistema” sono andati perduti: l’ipotesi è che la comparsa della sintomatologia in fase così ritardata sia attribuibile alla precoce attivazione dei meccanismi di compenso. Accanto ai meccanismi di recupero funzionale resi possibili dalla plasticità neuronale sono operanti nella persona malata, specialmente se cronica, altri meccanismi di adattamento. Disturbi e malattie possono avere un ruolo paradosso e portare alla luce risorse, sviluppi evolutivi, capacità latenti che, senza la malattia, non potrebbero essere osservati.

ll neurologo Antonio Damasio ha sottolineato in più occasioni il ruolo delle emozioni nelle attività cognitive, in particolare nei processi decisionali umani. Ora le chiedo, qual è il ruolo delle emozioni nell’attività clinica? Quanto le emozioni hanno “pesato” nella sua esperienza?

Credo che sia impossibile una separazione netta tra funzioni cognitive e funzioni affettive: mi è impossibile immaginare che uno scienziato, o un matematico, non siano “presi emotivamente” allorché conducono le loro ricerche: questo vale tanto più per l’esercizio della medicina, la quale richiede una passione aggiuntiva derivante dalla consapevolezza che dal nostro sapere e dal nostro fare dipendono il benessere e la vita dei pazienti… Le malattie neurologiche sono spesso drammatiche e le armi terapeutiche a disposizione sono scarse, per cui il medico è spesso frustrato dagli insuccessi e nella sua voglia di fare di più: esistono tuttavia delle patologie in cui è possibile ottenere dei risultati soddisfacenti.

Anche nel caso delle malattie neurodegenerative?

Il Parkinson, per esempio, è una malattia che si manifesta con sintomi motori, vegetativi, cognitivi, affettivi ecc. molto variabili, non solo da paziente a paziente, ma anche nello stesso paziente in momenti diversi della giornata. E’ una malattia che costringe il medico a un utilizzo molto personalizzato dei presidi terapeutici a disposizione, in primis del precursore dopaminico: dovendo curare una patologia variabile il medico non può applicare semplicemente dei “protocolli” o seguire solamente delle linee guida generali, deve invece adottare un approccio non solo tecnico ma anche, in qualche modo, specifico per i singoli pazienti. E’ proprio con questo tipo di gestione che il medico può ottenere notevoli risultati.

Il medico deve quindi considerare, oltre alla variabilità della malattia, il fatto che l’organizzazione celebrale si “esprime” diversamente nei vari individui, tanto più in caso di patologie…

Certamente. La gestione ottimale dei pazienti richiede personalizzazione e disponibilità, oltre che un elevato spirito di osservazione e una profonda conoscenza della fisiopatologia. Questa complessità d’approccio si ritrova anche nei confronti del cervello: molti sono abituati a considerarlo in modo modulare, come se fosse composto di varie parti, ognuna pronta a svolgere compiti precisi ed esclusivi, per cui ad ogni lesione in una particolare sede dovrebbe corrispondere sempre una relativa sintomatologia: in realtà invece le varie funzioni  cerebrali sono svolte mediante la cooperazione di diverse aree che interagiscono; non c’è una automatica corrispondenza fra sede della lesione e sintomatologia rilevata, la qual cosa contribuisce a rendere il nostro lavoro così complesso.

L’attività clinica con pazienti affetti da malattie neurodegenerative dovrebbe essere multidisciplinare e prevedere l’intervento, in relazione alle esigenze del paziente, di diverse figure sanitarie. Quanto nel nostro Paese viene usato davvero questo approccio integrato e quanto è estensibile ad altre patologie?

Purtroppo la collaborazione fra i diversi operatori sanitari è più teorica che pratica… Spesso l’approccio olistico rimane solo un bel discorso. In molte realtà ospedaliere manca il dialogo fra le diverse figure professionali e succede più facilmente che quando il medico curante chiede l’intervento dei vari “specialisti”, gli stessi operino poi autonomamente, piuttosto che in equipe, pur esercitando al meglio la loro professionalità.

Per chiudere, qual è secondo Lei uno dei maggiori “punti critici” della medicina oggi?

E’ la mancanza di comunicazione “face to face”: fra malati e medici e, a volte, tra gli stessi medici. Siamo in un epoca di grande divulgazione, ma sulla comunicazione resta molto da fare. Questo dato si ripercuote anche nell’insegnamento attuale della medicina. Non sono molte le persone che conoscono bene la loro materia, sono ancora di meno le persone che, pur conoscendola, sono capaci di comunicarla bene e insegnarla e, soprattutto, hanno voglia di farlo.

Intervista realizzata da Giuseppe de Paoli il 13/05/2010 (C) BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze – Tutti i diritti riservati

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