Pugilato, a tutto cervello…

Pugilato, a tutto cervello...MILANO – Hanno preso oggi il via a Milano i mondiali di boxe, alla loro XV edizione. Fino al 12 settembre si sfideranno sul ring di Assago più di 700 atleti provenienti da 143 paesi. Fra questi, i nostri Clemente Russo e l’oro olimpico di Pechino Roberto Cammarelle. Durante la conferenza stampa di presentazione il presidente della federazione internazionale Ching-Kuo Wu e di quella italiana Franco Falcinelli hanno sottolineato il valore educativo del pugilato, disciplina che richiede non solo prestanza fisica, ma soprattutto “impegno e cervello”… E’ un luogo comune quello che vede la boxe come uno sport particolarmente pericoloso? Sembrerebbe di sì, secondo quanto afferma in un educational paper anche la National Academy of Neuropsychology americana (Heilbronner RL et al., Neuropsychological Consequences of Boxing and Recommendations to Improve Safety, Arch Clin Neuropsy, 2009).

“Il tasso di mortalità fra i pugili è pari a quello di qualsiasi altro sport impegnativo e i danni neurologici a lungo termine sono rarissimi, generalmente limitati ai professionisti con una lunga carriera alle spalle”. Questa è la conclusione a cui giungono i ricercatori della National Academy of Neuropsychology, al termine di una monumentale review della letteratura scientifica degli ultimi 20 anni sul rapporto fra pugilato e danni al cervello, pubblicata quest’anno sugli Archives of Clinical Neuropsychology.

In effetti, i rarissimi casi di decesso a seguito di un incontro di boxe sembrano essere soltanto “molto pubblicizzati” e non rispecchiano il reale andamento del fenomeno: il tasso di mortalità di questo sport è infatti dello 0,13 per 1.000 (stime della American Medical Association), cifra che si riscontra anche in altri sport praticati ampiamente dai giovani quali il calcio, il motociclismo, le immersioni subacquee, l’alpinismo, il trekking e via discorrendo. Nella boxe è opportuno inoltre distinguere fra attività “professionale” e attività “dilettantistica”: in quest’ultimo caso, i numeri negativi sono ancora più bassi.

In ogni modo, le manifestazioni primarie di eventuali traumi neurologici derivanti da attività sportive come quella pugilistica vengono generalmente distinte in tre classi diagnostiche (Liberman et al. 2002, Stern et al. 2002, Millar et al. 2003, Prince et al. 2003, Chamelian et al. 2004, Teasdale et al. 2005, Gambrel et al. 2007, Han et al. 2007):

  • lesione neurologica acuta: occorre tipicamente a seguito di colpi al capo che coinvolgono cervelletto e tronco dell’encefalo;
  • sindrome post-concussiva: sintomi fisici e cognitivi persistenti per alcuni giorni, quali cefalee, vertigini, problemi di memoria;
  • encefalopatia traumatica cronica, un tempo stigmatizzata con il brutto termine “demenza pugilistica” (in realtà è difficile distinguere chiaramente fra “cause” legate all’attività sportiva e le altre patologie dementigene in atto legate all’invecchiamento): spettro di disturbi neurologici dovuto a una “esposizione cronica a traumi cerebrali”, caratterizzato da significativi disturbi motori (disartria, atassia cerebellare, parkinsonismo, iperreflessia), cognitivi (principalmente a livello di memoria, linguaggio, attenzione, funzioni esecutive, velocità di elaborazione delle informazioni) e comportamentali (cambiamenti di personalità, impulsività).

Da un punto di vista prettamente neuropsicologico, tutti gli studi condotti negli ultimi anni non hanno rilevato “evidenze” di deficit neurocognitivi clinicamente significativi fra i pugili non professionisti . I rari problemi neurocognitivi riscontrati in alcuni dilettanti con maggiore esperienza di “ring” implicavano principalmente riduzioni funzionali selettive dell’attenzione, della memoria, della capacità di concentrazione, della velocità motoria. In linea di massima, i pugili non professionisti riescono a evitare l’insorgenza di problemi neurologici cronici limitando la loro “esposizione al ring”, cioè in prima battuta la frequenza e la durata degli incontri, oltre ad adottare le opportune misure di sicurezza ormai diffuse in questo sport (Porter et al. 2003, Zhang et al. 2003, Moriarity et al. 2004, Randolph et al. 2005, Heilbronner et al. 2009).

La National Academy of Neuropsychology sottolinea infine la necessità di mettere in cantiere nuovi studi e ricerche nel campo e l’utilità della presenza di neuropsicologi anche nel contesto della boxe, sport nel quale risulta estremamente importante una valutazione neurocognitiva di base degli atleti, professionisti e non, e successivi frequenti test di controllo durante l’intera carriera sportiva, per una maggiore prevenzione dei disturbi cognitivi e del cervello di chi si è innamorato della “nobile arte”.

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Marco Mozzoni
Direttore Responsabile

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