Da qualche tempo circola un manifesto che si definisce “per la difesa della psicanalisi”. Tale documento mette in discussione la necessità di autorizzazione dello Stato per esercitare la Psicanalisi, proponendone l’esercizio “libero”. Ora, è cosa piuttosto scontata che la psicanalisi viva un tempo di crisi che ne rende difficile una diffusione capillare. La società “liquida” deresponsabilizza rispetto al lavoro dell’inconscio.
E il tempo della soggettività moderna scorre sempre più rapido, minando la diffusione della versione più tradizionale e ortodossa della tecnica freudiana. La conclusione radicale che ne ricavano gli psicanalisti laici è che il nemico sia ancora oggi l’istituzione, l’Ordine, la Legge. La psicanalisi si dovrebbe, secondo i più arditi tra loro, svincolare da un percorso formativo obbligatorio e dal concetto stesso di cura. La proposta diventerebbe quella di una sorta di formazione, di viaggio esperienziale quasi mistico e settario, del tutto svincolato da una dimensione di cura del disagio. Una sorta di passatempo colto e raffinato, riservato a pochi.
La psicanalisi è una psicoterapia?
Ma il manifesto auspica davvero questo epilogo per la psicanalisi, ovvero è in buona fede o difende solo l’interesse di un drappello di nostalgici abusivi? Di fatto appare strano che il documento si ostini a non considerare la funzione assolta delle leggi che istituiscono le professioni, che non è affatto quella di definirle sul piano scientifico, teorico o tecnico (aspetto epistemologico, questo, rispetto al quale la Legge è muta) ma di tutelare la collettività dall’esercizio fuori-norma di quell’attività (aspetto funzionale). Il paziente che va da uno psicanalista non abusivo ha oggi alcune garanzie rispetto alla sua laurea, alla sua specializzazione, ad un percorso minimo che quel soggetto ha fatto. In cambio, lo Stato si fa garante presso il cittadino che quel soggetto sia un professionista autorizzato.
La domanda che risuona nel manifesto: “la psicanalisi è una psicoterapia?” non ha alcun senso perché i due concetti sono su piani del tutto separati. Occorrerebbero due risposte: no, la psicanalisi è solo la psicanalisi; e sì, lo psicanalista per esercitare deve essere autorizzato dalla Legge. I timori (cito testualmente dal manifesto) di “perdita di autonomia e di identità”, di ”avere un padrone” o di “morire per dissoluzione” sono del tutto infondati come ben può testimoniare qualunque psicanalista iscritto all’Ordine. Del resto non c’è da stupirsi: la parola “psicoterapia” presente nella L. 56/1989 indica solo un contenitore vuoto di attività tutelate da un esercizio non normato, sregolato, abusivo che può recare danno al cittadino.
Per la psicanalisi stare lì, in quel contenitore non comporta alcuna perdita di identità, alcuna rinuncia. Il significato di “stare lì” è solo sull’altro piano, quello dell’autorizzazione sociale: fuori dalla categoria dell’articolo tre (volutamente non userei più la parola psicoterapia perché fuorviante), si è fuori-Legge: non si è abilitati.
Psicanalisti nel tempo
Il tema presentato dal “manifesto” possiede inoltre un secondo grave difetto: è ipostatizzato, sottratto dalla dimensione del tempo. Nell’hic et nunc dell’Italia di inizio millennio la 56/89 descrive un percorso con cui il desiderio di diventare analista deve confrontarsi. E così fa: non è forse normale che un giovane si domandi “come si fa a diventare…”?
Di solito la risposta che cerca è descritta da una Legge; e la storia di una Legge come la 56, in vigore da più di venti anni – ce lo insegna Gadamer e tutta l’ermeneutica giuridica – discende dagli effetti che di quella Legge molto più che dalla discussione parlamentare da cui è scaturita più di venti anni or sono. Mi riferisco ovviamente alla giurisprudenza, che è dirimente: “la psicanalisi non è annoverabile tra quelle libere ma necessita di particolare abilitazione statale” (Sentenza di Cassazione, sezione VI, 14408/2011). Ma non solo: la SPI, i suoi psicanalisti e le sue scuole dai primi anni ‘90 decidono progressivamente di avvicinarsi e di entrare nel contenitore protettivo e qualificante della Legge.
Da allora migliaia di allievi ogni anno si iscrivono ad una Scuola riconosciuta dal Miur con il desiderio di diventare psicanalisti abilitati ad esercitare una professione nell’Italia di inizio millennio. Inoltre, se non ha senso chiedersi se la psicanalisi sia psicoterapia, nel senso indicato nel manifesto, tuttavia almeno in senso quantitativo si può dire, al contrario, che la psicoterapia è in buona misura, psicanalisi: delle 55 Scuole di Psicoterapia autorizzate in Lombardia 28 sono di orientamento psicanalitico o psicodinamico (si veda il sito www.opl.it per l’elenco).
Inoltre la psicanalisi, lungi dal fasi dissolvere (temine usato nel manifesto) non ha subito la Legge ma, al contrario l’ha modificata. Se l’idea di formazione mutuata dalla psicanalisi ha a che fare con l’analisi personale, ebbene, con tutti i dubbi che questa situazione può sollevare, va detto che oggi una forma di terapia personale è richiesta come obbligatoria dal 56% delle Scuole di psicoterapia italiane; tale obbligo è del tutto assente dal Decreto Ministeriale 509/98.
Le conseguenze della psicanalisi “laica” oggi
Un’adesione in massa all’idea di una psicanalisi “abusiva” vedrebbe costretti gli psicanalisti ad una scelta: presentare la pratica della psicanalisi come prassi formativa affascinante ma sostanzialmente inutile a fini di cura ovvero come pratica abusiva di cura similmente ad altre attività spesso contraddistinte da nomi anglosassoni che l’inventiva soprattutto italiana affastella l’una all’altra come illusorie soluzioni al problema di chi vuole essere tutto senza più avere coscienza del limite costituito dal tempo, dalle risorse o dal proprio desiderio.
La psicanalisi laica, dal punto di vista degli Ordini degli Psicologi non è altro che una variante “colta” dei fenomeni di abusivismo che circondano il mondo della cura della psiche.
Dott. Mauro Vittorio Grimoldi
Presidente Ordine Psicologi della Lombardia
Coordinatore del gruppo CNOP Tutela e Qualità della Formazione in Psicoterapia
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