In Italia una sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste ha ridotto la pena di un omicida sulla base dei dati provenienti dall’esame neuropsicologico, dall’imaging funzionale e dalla genetica molecolare del comportamento del soggetto. La perizia – richiesta dal presidente della Corte, dott. Pier Valerio Reinotti – è stata realizzata dal prof. Giuseppe Sartori, ordinario di neuroscienze cognitive e di neuropsicologia clinica all’Università di Padova, e dal prof. Pietro Pietrini, ordinario presso il dipartimento di patologia sperimentale, biotecnologie mediche, infettivologia ed epidemiologia dell’Università di Pisa. Il caso è stato ripreso venerdì dalla rivista Nature, che ha sottolineato in particolare l’aspetto genetico della questione, con un articolo a firma di Emiliano Feresin destinato a sucitare un acceso dibattito nella comunità scientifica internazionale e non solo…
Sull’argomento, Marco Mozzoni ha intervistato Giuseppe Sartori.
Professore ordinario di Neuroscienze cognitive e direttore del master in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense all’Università di Padova, Giuseppe Sartori nel settore forense si occupa di comportamento criminale, di lie-detection, di memory-detection e di neuroscienze del libero arbitrio. Nell’ambito della neuropsicologia clinica si occupa di memoria semantica e di neuropsicologia della demenza. Numerosi i libri e gli studi pubblicati sulle più importanti riviste scientifiche. E’ stato perito e consulente in alcuni fra i più importanti casi giudiziari.
Professore, Nature sottolinea che “è la prima volta che in Europa la genetica comportamentale riesce a influenzare una sentenza” al punto da consentire una significativa riduzione di pena a un condannato per omicidio, sulla base di una perizia psichiatrica indipendente affidata – nel caso in esame – a Lei e al prof. Pietro Pietrini dell’Università di Pisa…
Abbiamo usato la “cassetta degli attrezzi” delle neuroscienze anche in altre perizie ma sembra che questa sia la prima volta che la decisione fa esplicito riferimento a questo approccio. Sicuramente è la prima sentenza “neurale e genetica” in Italia e in Europa e una delle poche al mondo. Riteniamo che le neuroscienze in psicopatologia forense rappresentino un utile complemento alla tradizionale diagnosi psichiatrica basata sul solo colloquio clinico e sui test. Le neuroscienze, infatti, permettono di aumentare il tasso di oggettività della valutazione psichiatrico-forense introducendo una descrizione più completa della sintomatologia e dei suoi correlati neurali e genetici. Nella tradizionale valutazione psichiatrico – forense la concordanza dei pareri formulati da esperti diversi è bassa e quindi ogni metodo che permette una maggiore oggettivazione dovrebbe, secondo noi, essere il benvenuto. La sentenza ha valorizzato questa maggiore oggettività esplicitamente menzionando il miglioramento che le neuroscienze permettono di raggiungere nella diagnosi descrittiva della sintomatologia (test neuropsicologici), nello studio del correlato neurale della malattia mentale (MRI e fMRI) e nella diagnosi di natura (studio dei fattori di rischio psicosociale e genetico). La sentenza riconosce efficacia probatoria alle neuroscienze cognitive e molecolari segnalando come l’utilizzo di queste tecniche aumenti la certezza che ci si trovi di fronte ad una vera e propria infermità mentale. La prova è cioè più forte.. La sentenza è stata sicuramente favorita dalla particolarità del caso consistente nel fatto che la Corte d’Assise (primo grado) pur riconoscendo il vizio parziale di mente non aveva concesso la rituale riduzione della pena di 1/3. Questo era stato motivo di doglianza da parte del difensore nei suoi motivi d’appello e aveva indotto la Corte d’Assise d’Appello ad approfondire la questione disponendo una nuova perizia, quella che ci è stata affidata e della quale stiamo parlando.
Ci può riassumere l’inquadramento psichiatrico forense del caso?
Gli elementi essenziali del fatto sono i seguenti: l’imputato, extracomunitario, era acccusato di aver ucciso a Udine un altro extracomunitario dopo una lite per delle offese arrecate dalla vittima all’omicida. L’imputato, girando truccato per motivi religiosi, si era sentito apostrofare come gay; ne è seguita una collutazione; poi si è recato ad acquistare un coltello ed è ritornato sul luogo del diverbio dove ha colpito a morte un soggetto, simile per il colore della pelle, ma che non era colui che in origine l’aveva offeso. La questione processuale centrale non era centrata sulla determinazione della responsabilità, ma sullo stato di mente dell’imputato al momento del fatto. L’imputato aveva una lunga storia psichiatrica e le precedenti perizie psichiatriche parlavano di “una patologia psichiatrica importante, di stampo chiaramente psicotico; la maggior parte dei dati disponibili depongono per un disturbo caratterizzato da alterazioni del pensiero e delle percezioni, in forma soprattutto di deliri interpretativi e/o di intuizioni deliranti”.
Che cosa vi è stato chiesto esattamente dalla Corte in qualità di Periti?
Il quesito posto dal giudice riguardava la capacità di intendere e di volere al momento del fatto/reato. Nel caso in questione abbiamo concluso per un vizio parziale di mente. Affinché sussista il vizio parziale è necessario dimostrare che la capacità di intendere e di volere è grandemente scemata a seguito della presenza di un’infermità di mente. La capacità di intendere e di volere è un termine giuridico sostanzialmente sinonimo di libero arbitrio. Quando è scemata è scemato anche il libero arbitrio. Vi deve inoltre essere la presenza di un’infermità di mente, concetto interpretato dalla giurisprudenza come indicante una alterazione patologica del sistema nervoso. La dimostrazione della infermità di mente è giuridicamente un passaggio essenziale in quanto una capacità di intendere e di volere per cause non patologiche (es. gelosia) non permette di identificare la presenza di un vizio di mente. Un altro passaggio logico fondamentale è la specificazione del reato perché è necessario dimostrare, se si vuol sostenere il vizio di mente, che il reato si realizza come “sintomo” della malattia. La capacità di intendere e di volere deve quindi essere sempre valutata in relazione al fatto/reato che è quello descritto sopra.
In che cosa è consistita la vostra perizia? Quali strumenti di indagine avete utilizzato e che cosa hanno evidenziato?
Abbiamo approcciato il caso con lo stesso rigore che avremmo utilizzato per uno studio scientifico da pubblicare… La nostra perizia è consistita innanzitutto nell’intervista clinica e nell’approfondimento del quadro psicopatologico mediante test psicodiagnostici – la parte più “tradizionale” del nostro lavoro. Abbiamo rilevato sintomi di tipo allucinatorio (edifici che si modificano), uditivi (voci degli angeli) e somatici (corpo che si gonfia). Abbiamo poi aggiunto un esame neuropsicologico mirato a quelle componenti cognitive che tipicamente sono alterate nel paziente psicotico e abbiamo rilevato un livello cognitivo basso, deficit attentivi e mnestici e una deficitaria “teoria della mente”, deficit di inibizione dell’azione impulsiva e incapacità di ragionamento controfattuale. I test neuropsicologici di ragionamento controfattuale hanno permesso di dimostrare che l’imputato non era in grado di produrre delle alternative comportamentali. Le sue alternative comportamentali erano quindi ridotte e conseguentemente risultava ridotto il suo spazio di libero arbitrio. Nel suo caso, inoltre, la sua spinta all’azione non poteva essere contrastata in quanto non vedeva alternative all’azione impulsiva. La seconda fase logica richiede la dimostrazione dell’infermità mentale (concetto giuridico interpretato come correlato biologico) e qui entrano in gioco le tecniche di imaging morfologica e funzionale. Abbiamo fatto una MRI morfologica che risultava negativa ed una fMRI mentre il soggetto era impegnato in un compito di stop-signal. Il paradigma dello stop-signal serve a verificare la capacità di blocco dell’azione impulsiva ed è un metodo standard per provocare questo tipo di sintomi. La prestazione patologica a questo test era accompagnata da una disfunzionalità frontale. Infine lo studio genetico, del quale può parlare più estesamente Pietro Pietrini, dimostrava, per numerosi geni coinvolti nel metabolismo dei neurotrasmettitori cerebrali, la presenza di numerosi alleli riscontrati essere associati con un aumento significativo di caratteristiche di impulsività e di discontrollo del comportamento. In sintesi, il libero arbitrio del soggetto era significativamente ridotto a seguito del quadro psichiatrico e cognitivo e il correlato biologico della malattia mentale era dimostrato da fMRI e genetica.
Che cosa è emerso specificamente dalla neuroimmagine?
La fMRI ha dimostrato una alterazione funzionale frontale rispetto ad un gruppo di soggetti sani di controllo e sarebbe stato interessante fare anche una VBM e potenziali evocati. Considerati i sintomi psicotici abbiamo confermato quanto noto in letteratura per i pazienti con questo tipo di patologia psichiatrica. Vi è coerenza fra sintomatologia e correlato neurale e questa coerenza ha un ruolo importante nell’oggettivazione del disturbo. Infatti i sintomi psichiatrici possono essere simulati e ovviamente l’imputato ha tutti i vantaggi nell’accentuare la propria sintomatologia. La simulazione l’abbiamo esclusa utilizzando la logica della correlazione anatomo-clinica ed alcuni indicatori appositi nei test di personalità.
Avete preso in considerazione anche fattori remoti di vulnerabilità del soggetto?
Esistono anche dei fattori causali remoti che, pur non determinanti nella formulazione del parere, in quanto non centrali al concetto di causalità materiale giuridicamente rilevante, possono avere un ruolo nella valutazione complessiva del caso. I fattori causali remoti (fattori di vulnerabilità) sono di ordine genetico e psicosociale. Fra i fattori psicosociali bisogna considerare che l’imputato appartiene ad una cultura religiosa molto differente da quella presente in Italia. In aggiunta egli descrive accuratamente le indicazioni derivanti dalla sua religione e descrive una serie di comportamenti prescritti dalla stessa. Tra questi emerge la dedizione alla preghiera e l’abitudine di mettere in atto delle particolari condotte (truccarsi gli occhi). Per la sua cultura le offese più gravi sono quelle che coinvolgono la madre e riguardano l’omosessualità.
Che cosa avete dunque concluso in merito alla capacità di intendere e di volere dell’imputato?
Abbiamo concluso che la capacità di intendere era “grandemente scemata” avendo, come fattore causale prossimo, il quadro psichiatrico già descritto associato a deficit cognitivi quali una difficoltà di ragionamento astratto, una difficoltà di concentrazione ed attenzione, una difficoltà a carico delle funzioni mnestiche e un importante deficit di intelligenza sociale (in particolare una incapacità di mettersi nei panni altrui e di valutare i comportamenti socialmente accettabili). Questo quadro ha impedito all’imputato di interpretare correttamente la situazione nella quale si trovava. Egli infatti, a causa della sua personalità dipendente avrebbe agito sulla base della influenza negativa di suggerimenti dati da un amico. Inoltre a causa della suo deficit di intelligenza sociale non è stato in grado di comprendere che, nella nostra società, il suo modo di esporsi, assolutamente normale nella sua cultura, è all’origine di una impressione ineludibile (omosessualità). Questi deficit però nel loro complesso non erano di livello talmente grave da abolire la capacità di intendere (vizio totale). Anche la capacità di volere era grandemente scemata ma non abolita. Un test legale per la verifica della sussistenza del così detto “impulso irresistibile”, che darebbe origine alla incapacità di volere, è il così detto test ipotetico del “poliziotto con la pistola”. Se ci fosse stato un poliziotto sulla scena del delitto il delitto sarebbe comunque avvenuto? Se la risposta è affermativa essa andrebbe ad indicare la presenza di un impulso talmente forte che nemmeno la presenza del poliziotto avrebbe potuto contrastarla. Diversamente, qualora la risposta a questa domanda sia negativa essa sta ad indicare che l’imputato sarebbe stato in grado di inibire i propri impulsi aggressivi di fronte al deterrente del poliziotto.Su questo punto l’imputato ha chiaramente detto che se ci fosse stato un poliziotto lui non avrebbe fatto nulla.
Quali sono gli elementi salienti che hanno portato la Corte a considerare una riduzione di pena?
Rispetto alla prima perizia risultava meglio documentata l’infermità mentale e le sue cause psicosociali, neurali e genetiche. Proprio questa maggior oggettività nella valutazione è stata alla base della motivazione di concedere il massimo dello riduzione della pena per il vizio parziale di mente, riduzione rituale che in primo grado non era stata concessa. Va precisato che nel nostro caso la genetica assieme all’imaging è servita per documentare i contorni dell’infermità di mente, non per dar conto della causazione del reato. Non esiste infatti alcuna relazione deterministica tra alcuna variante allelica conosciuta e alcun tipo di comportamento. Dico questo perché giornalisticamente la questione è stata presentata proprio in questo modo, cioè assumendo che la genetica fosse stata usata per spiegare il reato (sconto di pena per difetto genetico). Anche la discussione su Nature sembra aver preso questa piega.
Se le caratteristiche strutturali e funzionali del cervello di una persona, così come il suo particolare corredo genetico, possono renderlo così “vulnerabile” a determinate situazioni stressanti dell’ambiente tanto da renderlo incline ad atti criminosi quali l’omicidio, e tutto questo viene preso in considerazione nella valutazione dei termini di pena nelle aule dei Tribunali, perché allora non effettuare degli screening precoci della popolazione allo scopo di prevenire il crimine prima che questo si compia?
Non penso sia possibile. Allo stato delle conoscenze possiamo trovare i correlati neurali di un sintomo ma non siamo in grado di prevedere un sintomo sulla base di una pattern neurale. Per quanto riguarda la genetica e come ho già detto prima, allo stato attuale delle conoscenze non esiste alcun nesso deterministico tra una certa variabile genetica e la messa in atto di un comportamento socialmente riprovevole. Quello che gli studi di genetica comportamentale su larga scala indicano che possedere certe varianti alleliche, come spiegherà meglio Pietrini, aumenta significativamente il rischio possa mettere in atto certi comportamenti, specialmente in situazioni ambientali sfavorevoli. In altri termini, possedere certi alleli rende l’imputato statisticamente più vulnerabile. Ma possedere una o più di queste varianti alleliche non è condizione nè necessaria né sufficiente perchè un individuo manifesti comportamenti abnormi. Pertanto, anche lasciando da parte gli aspetti etici, quali quellidiscussi nel film “Minority Report”, eventuali screening della popolazione non avrebbero senso.
Intervista realizzata da Marco Mozzoni il 1/11/2009 © BRAINFACTOR Cervello e neuroscienze http://brainfactor.it
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