Laura Boella è professore ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università Statale di Milano. Si è dedicata allo studio del pensiero femminile del ‘900, proponendosi come una delle maggiori studiose di Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano e Edith Stein. In questo ambito di riflessione, ha sviluppato in particolare il tema delle relazioni intersoggettive e dei sentimenti di simpatia, empatia, compassione. Tra le sue recenti pubblicazioni, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006 e l’edizione italiana di H. Arendt, L’umanità in tempi bui, Raffaello Cortina, Milano 2006. Il suo ultimo libro Neuroetica. La morale prima della morale, Raffaello Cortina, Milano 2008, affronta un campo di ricerca molto innovativo, quello delle sfide che al pensiero morale vengono dai recenti studi delle neuroscienze . Sta curando una nuova traduzione italiana di M. Scheler, Essenza e forme della simpatia.
Andrea Lavazza la ha intervistata sul tema: Neuroscienze controverse, il caso dei neuroni specchio.
Professoressa Boella, qual è stata finora la “ricaduta” filosofica della scoperta dei neuroni specchio?
La scoperta dei neuroni specchio ha sicuramente contribuito all’attuale successo anche popolare delle neuroscienze. Si è trattato di un risultato “parsimonioso”, dotato di una speciale evidenza e semplicità, come è stato osservato. Come tale “ha preso il volo”, prestandosi a interpretazioni che vanno molto oltre il contesto specifico della ricerca sperimentale. Significativo è che quella scoperta abbia destato l’interesse dei filosofi. Essa tocca un punto centrale del pensiero contemporaneo, la convinzione che il legame intersoggettivo, il riconoscimento dell’altro siano essenziali per l’individuo e per la società. Si è verificata pertanto una convergenza tra una linea di ricerca – sviluppata in particolare nell’ambito della fenomenologia francese da Maurice Merleau-Ponty – sulla percezione, considerata non semplicemente un assemblaggio di dati sensibili (visivi, uditivi o altro), ma un vero dialogo con il mondo esterno (cose e persone) in cui il corpo è protagonista, esprime attraverso il proprio movimento intenzioni e preferenze e insieme conosce il mondo esplorandolo. In Francia peraltro sono attivi ricercatori e filosofi (Jean Luc Petit) che, aggiornando i riferimenti scientifici di Merleau-Ponty, lavorano sul nesso percezione/azione usando dati sperimentali come i mirror. Il punto d’incontro tra neuroni specchio e filosofia riguarda quindi, almeno a mio parere, innanzitutto il loro carattere visuo-motorio e il loro ruolo nella percezione di azioni finalizzate. Recentemente (G. Hickok, 2009), in un intervento critico sulla validità del dato sperimentale, il meccanismo non cognitivistico di associazione tra attore e spettatore (“so quel che fai”) proprio dei mirror è stato ricondotto alla “teoria motoria della conoscenza” in auge tra gli psicologi agli inizi del ‘900. Certo, gli esperimenti su sistemi specchio e emozioni (p. es. il disgusto) hanno spostato il quadro di riferimento. Soprattutto, i neuroni specchio sono diventati una specie di citazione obbligata per ogni filosofo che si occupi di empatia. La “riscoperta dell’empatia” (Stueber, 2006; Goldman, 2006) si deve all’interpretazione dei sistemi mirror come “empatia allargata”. In essi si è vista infatti la base neurobiologica di una costellazione di vissuti, dalla simpatia alla comprensione dell’altro alla cura, che spesso vengono assimilati frettolosamente sotto il termine-ombrello di empatia. Ai miei occhi di studiosa dell’empatia e della sua storia tormentata, è abbastanza singolare il modo in cui oggi si traducono le implicazioni dei mirror pescando a caso tra filosofi e psicologi (ad es., Theodor Lipps) che hanno giocato un ruolo nella riflessione sull’empatia, ma che spesso ne hanno offerto una versione impoverita.
Lei in particolare ha sviluppato una riflessione sui meccanismi automatici dell’empatia. Ce la può riassumere?
La riflessione filosofica sull’empatia raggiunge il suo massimo approfondimento nel contesto della prima fase del movimento fenomenologico, cioè tra il 1910 e la prima metà degli anni ’20, per opera di Husserl, Scheler e Stein. Decisivo è il fatto che l’empatia non venga più assimilata ai “sentimenti morali” (pietà, compassione, simpatia), ma venga considerata un’esperienza autonoma: prima di condividere il dolore di un altro, devo riconoscerlo come altro, dotato come me di sentimenti, pensieri, volizioni, ma distinto da me. Dunque, prima viene quella che io chiamo “la scoperta dell’altro”, l’attestazione della sua esistenza, il suo essere parte del mondo in cui vivo. Solo su questa base, ha senso parlare di passaggio di sentimenti tra me e l’altro, di condivisione, di solidarietà. Ricordo questa premessa perché essa fu fondamentale, ma segnò anche le sorti del pensiero filosofico sull’empatia. Se guardiamo alla filosofia contemporanea, osserviamo infatti un sentiero interrotto o incompiuto. La ragione sta nel fatto che i fenomenologi separarono l’esperienza empatica dalla sua origine corporea o meglio (penso qui soprattutto all’ultimo Husserl e a Heidegger e a tutti i loro allievi) diressero la loro attenzione al “mondo della vita”, ossia all’orizzonte naturale, sociale, linguistico, culturale in cui da sempre siamo inconsapevolmente in relazione con gli altri, perdendo così interesse per la radice biologico-organica dell’empatia. Io ritengo invece che senza un’originaria associazione corporea, senza un meccanismo di tipo organico che permette di “accoppiare” ciò che sento e so in prima persona a ciò che vedo e sento nell’altro, non potrebbe nascere nessun desiderio o curiosità di esplorare il mondo dell’altro. I sistemi mirror parlano di un meccanismo neurobiologico di rispecchiamento o di risonanza tra aree corrispondente all’originario diretto legame intercorporeo tra esseri che fanno parte di un mondo comune. E’ noto che si tratta di un ambito ancora tutto da esplorare a livello neurobiologico: “dietro lo specchio” (Damasio) è all’opera una complessa architettura neuronale, in cui memoria e immaginazione lavorano per allestire la scena della relazione e della comprensione dell’altro. Numerosi studi sull’empatia del dolore (cfr. Singer, 2004) hanno chiamato in causa altre aree oltre ai mirror e in particolare hanno mostrato come il rispecchiamento può non essere totale e venga in particolare presupponga una modulazione delle emozioni e un ruolo del sistema di autoregolazione corporea fondamentale per il senso di sé (cfr. Craig, 2008). Si possono in ogni caso ricollegare a questo primo momento, automatico e involontario, dell’empatia fenomeni sia individuali, sia istintivo-naturali, sia storico-collettivi: il contagio emotivo, la simbiosi madre-neonato, nonché fenomeni anche contemporanei come il “fare corpo” di un gruppo-branco, di una massa.
Siamo però solo agli inizi dell’esperienza empatica che si sviluppa con l’intervento di mediazioni tra il sé e l’altro e il potenziamento di procedure indirette e parziali, talora asimmetriche, di relazione.
Di fronte alla controversia scientifica che si è aperta, vede un rischio che la filosofia prenda a prestito con troppa leggerezza risultati della scienza non ancora ben corroborati?
Vedo il pericolo che sia la scienza sia la filosofia siano vittime dell’impazienza, della generalizzazione, della fretta di arrivare a soluzioni definitive. Per quanto riguarda la filosofia, non vorrei che il riferimento ai mirror diventi una clausola di stile, che non cambia in nulla il modo di procedere. Ho letto di recente alcuni interventi di filosofi che, trattando il tema dell’intersoggettività, citavano con grande approssimazione e qualche errore i mirror (quasi per dovere professionale), facendone un falso obiettivo polemico.
Non sembra sia così, ma se fosse necessario fare un passo indietro sui meccanismi mirror, anche la filosofia che si è sviluppata a partire da essi dovrebbe essere ricalibrata?
L’interpretazione dei sistemi mirror come “empatia allargata” è stata influenzata dal dibattito sulla Theory of Mind (ToM). Non è un caso che anche di recente la discussione (e i relativi consensi e dissensi) si siano incentrati sul meccanismo non cognitivistico di “simulazione” che permetterebbe la comprensione dell’intenzione altrui. Alcuni lo hanno ricondotto a una “imitazione interna” (Stueber), altri a una “risonanza intenzionale” (Goldmann, Gallese), altri lo rifiutano (Gallagher – Zahavi, 2008), altri lo considerano privo di evidenza sperimentale (Damasio 2008). Per me è essenziale il fatto che se mind reading è risonanza / simulazione / empatia, le diverse componenti dell’empatia (percettivo-emotive, cognitive e pratico-morali) restano in una relazione o dicotomica o estrinseca o di semplice indistinzione. A livello di mirror o anche di aree, i meccanismi sono gli stessi per il disgusto e per la compassione, per l’amore e per l’odio. Analogamente, il rapporto per nulla lineare tra relazioni intersoggettive (faccia a faccia, prossimità e somiglianza) e relazioni e contesto sociale-culturale (estraneità, differenza, lontananza, ignoto) non viene preso in considerazione. La nozione di “cognizione sociale”, da tutti ritenuta fondamentale, rimane non analizzata.
Più in generale, qual è il rapporto che si va instaurando oggi tra filosofia e neuroscienze, soprattutto nell’ambito dell’etica?
Le neuroscienze stanno agitando le acque della riflessione morale. I molteplici esperimenti condotti sul giudizio intuitivo morale o moral sense, sul free will e i processi decisionali, nonché sull’empatia del dolore, sulla fairness e su emozioni come l’amore e l’odio o ancora sul razzismo implicito, per non citare che i più discussi, hanno riaperto dibattiti classici, come quello tra sentimentalisti e razionalisti o tra determinismo e indeterminismo. C’è un riduzionismo neurobiologico che ritiene che le correlazioni tra funzionamenti cerebrali e giudizi o comportamenti siano l’unico tipo di descrizione dell’esperienza morale. Ove tali correlazioni non sussistono, il fenomeno non esiste: ad esempio, la libertà sarebbe un’illusione perché a livello cerebrale si è notato l’insorgere di attivazioni precedenti la consapevolezza di compiere un gesto. E’ chiaro che non è questa la strada di un realistico confronto con i dati sperimentali che hanno per oggetto aspetti dell’esperienza morale. Io penso che le neuroscienze stiano portando a smontare la classica distinzione dell’etica analitica tra fatti e valori, descrizione e valutazione, natura e regola. Uno dei principali motivi di interesse morale dei dati neurobiologici sta nel fatto che essi ci mettono di fronte a passaggi e intrecci tra funzionamenti automatici e involontari e scelte e comportamenti consapevoli. Non sono forse le emozioni – il cui ruolo nella morale costituisce uno degli effetti più rilevanti delle neuroscienze dell’etica – un esempio di dinamica che inizia con semplici risposte organiche e poi evolve e si trasforma, combinandosi con elementi cognitivi, sociali, spirituali? Un altro motivo di interesse è che le neuroscienze rispondono a una domanda sulla morale diversa da quella di Darwin. In questione non è tanto l’”origine” della morale, quanto piuttosto la domanda relativa al tipo di funzionamento cerebrale necessario per essere individui liberi, altruisti, piuttosto che violenti e aggressivi. Si tratta di una questione molto delicata, con implicazioni decisive sul piano della responsabilità. Se, come è avvenuto in un celebre caso Roper vs Simons (2005) recentemente ritornato alla ribalta, si considera il cervello dell’adolescente non pienamente sviluppato, la sua imputabilità (la pena di morte) potrebbe essere diminuita. Nessuna conoscenza dei meccanismi cerebrali può esonerare dall’interrogazione sulla responsabilità dei propri atti. Io considero elemento basilare dell’esperienza morale proprio la ricomposizione o l’ordine che ciascuno di noi è chiamato a dare o è in grado di dare dei disparati elementi che entrano nelle nostre azioni o inazioni.
I filosofi debbono essere informati e competenti anche in materia di neuroscienze o è ancora possibile fare una riflessione da “poltrona”, come in passato, ignorando i risulti della scienza? C’è spazio per una normatività che la filosofia può elaborare a prescindere dai dati empirici?
Non è possibile ignorare i risultati della scienza sperimentale, se non per ostilità preconcetta o indifferenza. Certo, non solo il metodo, ma gli stessi interessi conoscitivi, le domande della scienza e della filosofia sono molto diversi ed è giusto che sia così. Da quanto ho detto prima emerge chiaramente che non credo a una distinzione netta tra piano empirico e piano normativo, principalmente perché i “dati” empirici non sono per me soltanto entità misurabili o calcolabili o classificabili entro leggi o categorie generali. Nel “dato” empirico (che può essere una cellula come la rivoluzione francese come un ignoto gesto di bontà, ricordiamolo sempre) convergono diversi ordini di accadimenti naturali e storici – regolari, accidentali, singolari, imprevedibili. Se c’è una fragilità della filosofia oggi – una filosofia ovviamente che non aspiri a costruire dottrine, ma che assuma la complessità dell’esperienza umana – sta nell’enorme compito che le si pone di fronte: addentrarsi nella molteplice stratificazione dell’esperienza umana vissuta senza pretendere di dominarla dall’alto.
Quali occasioni di incontro e scambio vede tra filosofi e neuroscienziati? Ritiene che anche questi ultimi debbano fare uno sforzo per allargare il proprio orizzonte e tenere in considerazione il contributo metodologico e concettuale che viene dalla filosofia?
Che ne siano più o meno consapevoli, i neuroscienziati lavorano costantemente con concetti provenienti dalle diverse aree filosofiche. Che cos’è un esperimento di visualizzazione cerebrale sulla fairness o sul razzismo implicito, se non la messa alla prova di un concetto (sociologico, politico o altro) con un metodologia di misurazione di processi o attivazioni di determinate aree del cervello? Auspicabile è che la circolazione di idee e concetti di provenienza filosofica non avvenga soltanto in un regime di divisione delle competenze (ai filosofi la chiarificazione concettuale o linguistica, agli scienziati la misurazione). Filosofi e neuroscienziati in realtà non sono chiamati oggi a scambiarsi mere competenze professionali, bensì a fronteggiare insieme, dai loro diversi punti di vista, i problemi dell’epoca contemporanea. E questo possono farlo solo se si sentono abitanti di un mondo comune in cui le scoperte scientifiche mettono in gioco, alla stessa stregua di un romanzo o di un’opera d’arte, l’umanità degli esseri umani.
Oltre ai neuroni specchio quali sono le altre “scoperte” o ricerche neuroscientifiche recenti che considera più rilevanti dal suo punto di vista?
La ricerca sperimentale sul cervello sta avanzando in settori in cui il confine tra conoscenza dei processi cerebrali e eventuale loro manipolazione sta diventando molto sottile. Mi riferisco al diffondersi tra persone sane dell’uso di farmaci per il potenziamento cognitivo finora impiegati in funzione esclusivamente terapeutica. Allo stesso modo, danno molto da pensare i risultati di esperimenti di imaging su individui in stato vegetativo persistente. Questi studi aprono domande abissali, ma sicuramente contribuiranno a una nuova diagnostica e nominazione di questi stati. Sotto il profilo filosofico, ritengo affascinante l’ultimo lavoro del gruppo di Damasio, pubblicato su PNAS del 20 aprile 2009, in cui lo studio di due emozioni sociali-morali (ammirazione e compassione) viene approfondito in direzione del sé che prova l’emozione. Ne risulta il coinvolgimento di una molteplicità di aree e in particolare la misurazione di un tempo di attivazione dell’insula che fa entrare in gioco la cultura e l’educazione.
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