Quanto è attendibile il ricordo dei testimoni di un crimine? Quanto è valida la loro deposizione nelle aule dei tribunali? Le nuove tecnologie di neuroimaging possono essere di aiuto nel rispondere a queste domande? Difficile, perchè la memoria sembra giocare brutti scherzi al cervello… Ne sono convinti i ricercatori dell’Università di Stanford.
Dai risultati di uno studio pubblicato ieri su Pnas, realizzato dai ricercatori di Stanford, fra i quali erano presenti anche psicologi ed esperti di legge, emergerebbe che la risonanza magnetica funzionale (fMRI) è sì in grado di distingure fra un ricordo ricco e una memoria debole, ma non di provare se questi ricordi sono basati o meno sulla rievocazione di esperienze reali.
“Nel nostro studio siamo stati infatti in grado di distiguere fra rievocazioni ricche di particolari, senso di familiarità e ricordi deboli, ma abbiamo trovato poche evidenze sulla possibilità di verificare se l’esperienza realmente vissuta dal soggetto era impressa nel suo cervello”, ha spiegato in una nota stampa Anthony Wagner, autore principale della ricerca.
La questione è particolarmente delicata. In India nel 2008 un giudice ha condannato una donna accusata di avere ucciso il suo fidanzato “basandosi parzialmente su prove fornite dal neuroimaging, con cui è stata valutata la sua capacità di ricordare i dettagli del crimine”, riporta Adam Gorlick su Stanford Report.
Il nuovo studio analizza i risultati di due esperimenti distinti, condotti a Stanford.
Nel primo esperimento, 16 soggetti sono stati sottoposti a scan fMRI durante un compito di riconoscimento fra 400 fotografie di 200 volti visti in precedenza: sulla base dei pattern di attività cerebrale i ricercatori avrebbero “decodificato con notevole accuratezza la snsazione soggettiva di riconoscimento”.
Nel secondo esperimento, finalizzato a “misurare” i ricordi spontanei dei soggetti, “l’osservazione dell’attività cerebrale non è stata in grado di indicare se il loro ricordo era riferito a una determinata immagine oppure no”.
“La memoria – dicono i ricercatori americani – può giocare brutti scherzi al cervello: a volte l’immagine di un volto può innescare un processo di ricordo anche se la persona non ha mai visto prima quella faccia: in questi casi i pattern di attività cerebrale risultano simili a quelli scatenati da un ricordo reale; per tale motivo è difficile che gli scan del cervello riescano a distinguere tra vero e falso ricordo”.
“Le tecniche di analisi basata su brain imaging si svilupperanno ulteriormente, ma dubito che saranno un giorno capaci di rispondere con affidabilità del cento per cento alla domanda se una persona ha vissuto realmente una particolare esperienza o meno”, confessa il postdoc Jess Rissman, del gruppo di ricerca di Stanford.
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