Che cos’è la neuropsicologia forense? Qual è lo stato dell’arte della pratica, nel nostro Paese? Quale professionista può occuparsi di neuropsicologia forense in Italia? Ne parliamo con il neurologo Andrea Stracciari (nella foto), autore – insieme a Giuseppe Sartori e Angelo Bianchi – del libro fresco di stampa Neuropsicologia Forense (Il Mulino, 2010).
Andrea Stracciari è medico neurologo presso l’U.O. di Neurologia dell’Azienda Ospedaliero Universitaria S. Orsola – Malpighi di Bologna, dove coordina l’attività di Neuropsicologia. Professore a contratto presso i Dipartimenti di Psicologia delle Università di Bologna e di Padova, è responsabile del Gruppo di Studio di Neuropsicologia Forense della Società Italiana di Neuropsicologia. Autore di numerose pubblicazioni scientifiche di argomento neurologico e neuropsicologico, è “ad hoc reviewer” per diverse riviste scientifiche internazionali. In ambito clinico svolge attività prevalentemente nel campo dei disturbi della memoria, delle demenze, e in generale dei disturbi cognitivi e comportamentali dell’anziano, con un’attenzione particolare agli aspetti etici connessi alla pratica clinica e forense della neuropsicologia.
Dottor Stracciari, in sintesi, che cos’è la neuropsicologia forense?
Il termine neuropsicologia forense sta ad indicare l’utilizzo della neuropsicologia per rispondere a domande e problemi di rilevanza giuridica. Un giudice vuol sapere se quell’imputato ha agito con piena coscienza e volontà, oppure se è in grado di partecipare consapevolmente al processo che lo riguarda, oppure se il suo comportamento in futuro potrà essere pericoloso. Un altro vuol sapere se quel testimone, o quella vittima di reato, può essere considerata credibile. Un altro vuol sapere se l’evento in causa – un trauma cerebrale, un’intossicazione, uno shock emotivo – ha prodotto un qualche tipo di danno sulla vittima, adulto o bambino, oppure sui familiari. Un altro vuol sapere se una persona è in grado di provvedere da sola ai propri interessi, o se debba in qualche modo essere assistita o sostituita, per esempio da un tutore o da un amministratore di sostegno. Un altro ancora vuol sapere a quale genitore – o a chi altro – affidare il figlio conteso. Un medico legale, d’altra parte, vuol sapere se il soggetto in esame è idoneo alla guida, oppure a detenere armi da fuoco, oppure se soddisfa i requisiti per la concessione di benefici di natura assistenziale. Nella risposta a questi, e a molti altri quesiti, l’apporto della neuropsicologia risulta di primaria importanza. La neuropsicologia, in quanto disciplina specialistica, può offrire infatti importanti contributi nei diversi settori dell’indagine forense, contributi che vanno nella direzione di una riduzione del margine di discrezionalità nell’accertamento della funzionalità neuropsichica. L’esame neuropsicologico permette di documentare con maggiore attendibilità la sintomatologia psichica e cognitiva nonché le funzioni residue, fornendo quindi evidenze scientifiche maggiormente solide rispetto a quelle ottenibili esclusivamente con il metodo clinico.
Che cosa ha in comune e in che cosa si distingue la neuropsicologia forense dalla neuropsicologia clinica?
La neuropsicologia forense va considerata a tutti gli effetti una branca della neuropsicologia, dal momento che ne applica i medesimi principi, la metodologia e la pratica, anche se con finalità diverse dalla diagnostica clinica. La neuropsicologia forense ha in comune con la neuropsicologia clinica l’obiettivo di fornire informazioni basate su principi neuropsicologici e metodologie d’indagine scientificamente validate, tuttavia l’applicazione in ambito legale ne fa sottolineare alcuni aspetti peculiari, quali, per esempio, che il “cliente” del neuropsicologo forense non è il paziente, ma una terza figura (avvocato, giudice, assicurazione), che lo scopo della valutazione neuropsicologica forense è non solo documentare un’eventuale disfunzione, ma stabilire se tale disfunzione è collegabile all’evento oggetto del quesito giuridico, che l’alleanza con l’esaminando è non solo non richiesta, ma secondo alcuni del tutto sconsigliabile.
Quali sono gli ambiti applicativi delle neurospicologia forense?
Gli ambiti applicativi della neuropsicologia forense sono molteplici ed eterogenei, potendo spaziare dall’ambito penale e civile, a quello pensionistico ed assicurativo. In ognuno di essi l’applicazione della metodica neuropsicologica rappresenta il cardine dei quesiti giuridici rilevanti. Si pensi per esempio, in ambito penale, alla valutazione della capacità di stare in giudizio, quando si deve dimostrare se le persone accusate di un crimine sono in grado di partecipare coscientemente al processo: gli imputati con disturbi neuropsichiatrici, in questo caso, sono candidati a valutazioni preprocessuali della loro capacità mentale di comprendere le accuse formulate contro di loro e della loro abilità di assistere l’avvocato nella loro difesa. Ancora: un criminale con disturbi cognitivi può cercare l’assoluzione o la riduzione della pena in considerazione del fatto che era legalmente incapace di intendere o di volere al momento del crimine. Oppure, in ambito civile, dove la valutazione neuropsicologica permette di documentare la presenza e quantificare le diverse voci di pregiudizio non patrimoniale, di valutare la capacità di agire in modo autonomo, la capacità di autodeterminarsi circa la propria salute, l’idoneità alla guida ecc.
Qual è lo stato dell’arte della pratica neuropsicologica in ambito forense in Italia? E negli altri Paesi?
In Italia l’interesse istituzionale e scientifico per la neuropsicologia forense è ancora marginale, tuttavia l’utilizzo della metodica neuropsicologica in ambito giuridico, seppur difficilmente quantificabile, si sta costantemente evolvendo ed espandendo. Da un lato, infatti, l’elevata frequenza di incidenti stradali e infortuni sul lavoro ha portato alla ribalta i disturbi cognitivo – comportamentali del cerebroleso; dall’altro si riscontra una maggiore propensione a considerare il danno neuropsicologico con più attenzione, abbandonando i tradizionali pregiudizi che tendevano ad assimilarlo a una poco obiettivabile e sfuggente sensazione soggettiva. Infine, l’aumento della vita media, con il conseguente incremento della prevalenza di disturbi dello spettro demenziale, comporta il sempre più frequente ricorso all’indagine neuropsicologica al fine di adottare provvedimenti medico – legali (es. riconoscimento di invalidità, idoneità alla guida, valutazione delle capacità, consenso ai trattamenti sanitari). Altrove la pratica neuropsicologica in ambito forense è già molto diffusa. Mi riferisco in particolare ai paesi anglosassoni, dove la valutazione neuropsicologica è praticamente la regola in presenza di un contenzioso legale. Negli Stati Uniti, secondo una recente revisione, dopo il neurologo e lo psichiatra, sono gli avvocati e i giudici i maggiori “committenti” di esami neuropsicologici, e la richiesta di tale indagine da parte dei soli avvocati eguaglia il numero globale di richieste fatte da parte di neurochirurghi, psicologi clinici, internisti e riabilitatori.
Quali sono gli strumenti diagnostici d’elezione della neuropsicologia forense? Esistono protocolli valutativi standardizzati?
L’approccio diagnostico neuropsicologico forense prevede il colloquio, la somministrazione di test psicometrici, nonché l’integrazione dei dati così ottenuti con i risultati delle neuroimmagini. Certamente i test psicometrici rappresentano il cardine della pratica neuropsicologica forense. E’ bene tuttavia precisare che la maggior parte di essi è mutuata da quelli in uso per scopi clinici, mentre sono pochissimi i test creati e tarati ad hoc. In particolare, per molti test utilizzati in ambito forense mancano o sono obsolete tarature in italiano, spesso non garantendo esse una sufficiente rappresentatività delle diverse provenienze geografiche e culturali. La crescente applicazione della testistica neuropsicologica in ambito forense comporta inoltre la necessità di disegnare strumenti ad hoc per esplorare comportamenti usualmente meno testati in ambito clinico, quali condotta e giudizio morale, libero arbitrio, intenzione ingannevole, impulsività, etc., vale a dire l’area delle cosiddette neuroscienze cognitive sociali, ed è questo uno degli obiettivi più ambiziosi della ricerca metodologica in neuropsicologia .
Quali sono i disturbi neuropsicologici più comunemente riscontrati in ambito forense?
Praticamente tutte le disfunzioni cognitive causate da un’alterazione – organica o funzionale – del Sistema Nervoso Centrale possono essere in causa ed essere differentemente prevalenti a seconda degli ambiti di applicazione. Nella quantificazione del danno alla persona – ad esempio in seguito ad un trauma cranico – i disturbi neuropsicologici da sottoporre all’esame valutativo sono strettamente dipendenti dalle sedi lesionali. Nel caso di valutazione dell’idoneità a testimoniare, l’area critica è quella delle funzioni di memoria, mentre nella valutazione delle capacità i dominii più vulnerabili, quindi da indagare prioritariamente ed estensivamente, includono le funzioni di controllo – attenzione, ragionamento logico, funzioni esecutive -, nel caso dell’idoneità alla guida occorre verificare particolarmente l’integrità delle funzioni di controllo e delle abilità visuo-spaziali.
Come viene valutata la capacità di intendere e di volere di una persona? In che modo e quanto può pesare la valutazione neuropsicologica nelle decisioni dei giudici in merito all’imputabilità di un soggetto?
A questo proposito occorre sottolineare che la capacità di intendere e di volere – “capacità” in senso lato – è un costrutto di natura eminentemente giuridica, che sta a indicare qualcosa che distingue tra una persona che di fronte ad una scelta è in grado di capirne e soppesarne le conseguenze, quindi di prendere consapevolmente una decisione – la cui scelta va quindi rispettata, indipendentemente dalla ragionevolezza di tale decisione -, e quella che necessita che altri decidano al suo posto. Solo un giudice può pertanto dichiarare una persona legalmente incapace. La capacità di intendere e di volere – nonché il suo braccio operativo o capacità di agire – consiste – nella sua accezione più elementare – nella capacità di esercitare autonomamente i propri diritti e doveri, dei quali la persona è entrata in possesso al momento della nascita. Detto semplicemente, essa consiste nella possibilità di decidere in autonomia circa il proprio progetto di vita e il proprio destino, nel rispetto delle regole di civile convivenza e di solidarietà sociale. Si tratta evidentemente di uno dei più elementari principi del liberalismo giuridico, non a caso posto a fondamento del diritto civile e della stessa carta costituzionale. La capacità di intendere e di volere e la capacità di agire presuppongono l’integrità e l’esercizio efficace di una vasta famiglia di competenze di natura cognitiva, emozionale e sociale.
Quali, in particolare?
Tali competenze cliniche includono tutte quelle abilità individuali che permettono di compiere determinate azioni, più o meno complesse – dalle attività più elementari della vita quotidiana a complicate scelte economiche – e che poggiano sia sulle capacità decisionali del paziente sia sull’idoneità cognitiva al compito richiesto. La valutazione di tali capacità – consentire a un trattamento, votare, testimoniare, fare testamento, gestire le proprie finanze, guidare un’automobile, detenere e usare un’arma, svolgere un professione ecc. – è compito del clinico e rappresenta il cardine delle informazioni che permetteranno poi di prendere una decisione in ambito giuridico. Si tratta, come è intuibile, di un compito di grande responsabilità, che poggia sul delicato e difficile bilancio tra il principio di rispettare l’individuale libertà di scelta ed auto-determinazione e la necessità di proteggere il paziente. Esso richiede quindi garanzia della massima competenza professionale, prevede selezione, uso e corretta interpretazione di adeguati metodi di valutazione e deve ottemperare ai principi cardinali dell’etica biomedica. Qualora il neuropsicologo (da solo o come parte di un collegio di consulenti) sia chiamato a esprimere una valutazione circa l’eventuale presenza di impedimenti alla capacità del soggetto in esame è quanto mai opportuno disporre di un protocollo di valutazione da applicare in forma flessibile, ma tuttavia abbastanza completo da non risultare né troppo concentrato su aspetti particolari né carente di informazioni pertinenti. Come regola generale, l’indagine dovrà essere sempre rivolta alla rilevazione non solo dei punti di debolezza (sintomi, disfunzioni, alterazioni, disabilità ecc.), ma anche dei punti di forza (abilità preservate, strategie di coping, eventuali trattamenti, ausili o strategie di rimedio disponibili ecc.) del soggetto esaminato e del suo contesto di vita quotidiana. È bene precisare che non esiste uno strumento gold standard per misurare la capacità, né linee-guida propriamente dette. Nella pratica quotidiana il giudizio è spesso basato sull’impressione clinica, integrata dal risultato di indagini effettuate mediante strumenti testistici nati per scopi diversi, in genere batterie per la diagnostica clinica (demenze, traumi cranici ecc.). Il rischio del mancato utilizzo di metodi standardizzati è prevalentemente costituito dalla bassa affidabilità fra osservatori. Per questo, specialmente negli Stati Uniti, sono state costruite, proposte e utilizzate delle scale ad hoc per la valutazione della capacità, che, tuttavia, se disgiunte da un’attenta e competente valutazione clinica e neuropsicologica propriamente detta, possono rivelarsi strumenti inaffidabili. Peraltro di tali strumenti mancano validazioni per la popolazione italiana…
Abbiamo recentemente assistito in Italia a un caso che ha fatto molto discutere. Parlo della sentenza di Trieste (vedere al proposito le interviste esclusive di BrainFactor al prof. Giuseppe Sartori e al prof. Pietro Pietrini, estensori della perizia, e il commento alla sentenza realizzato per BrainFactor dall’Avv. Sabrina Peron)…
E’ vero, la sentenza di Trieste ha provocato clamore ed allarmismo, ma a mio parere le reazioni negative non appaiono del tutto giustificate. Infatti se il progredire della tecnologia scientifica in neuroscienze è accolto con favore e ritenuto un arricchimento culturale e metodologico quando utilizzato in un’ottica clinica, allo stesso modo ne deve essere valutato positivamente e senza preconcetti l’uso in chiave giuridica. Anzi, da tempo si sente la necessità di fornire ai giudici una tecnologia di indagine più scientifica e riproducibile rispetto al passato, quando i periti basavano le proprie convinzioni solo ed esclusivamente sulla propria autorevolezza piuttosto che su meno confutabili evidenze scientifiche. Ed è innegabile che a tuttoggi sopravvive tra gli esperti in ambito neuropsichiatrico – molto più che in altri settori – una forte resistenza ad accettare di corroborare il proprio giudizio clinico con sorgenti di evidenza diverse dall’intuizione e dall’esperienza accumulata, per cui sovente i loro pareri finiscono per risultare mere opinioni autorevoli, non di rado del tutto autoreferenziali (ipse dixit). Certo, ciò non deve significare che le “macchine” e la tecnologia debbano sostituirsi al ragionamento clinico e alla esperienza dei periti, ma piuttosto esse possono costituire un fattore aggiunto che può implementare ed arricchire l’attendibilità della valutazione peritale. L’expertise degli studiosi di neuroscienze del comportamento – come quella di qualsiasi altro consulente – viene richiesta per fornire al giudice robuste evidenze adeguate a supportare il ragionamento propriamente giuridico. E quali migliori evidenze di una valutazione che integri i dati clinici, neuropsicologici, strumentali e perché no genetici? Non si deve dimenticare che il giudice richiede evidenze di natura fattuale, le uniche delle quali abbia veramente bisogno per formare il proprio libero convincimento.
Nel caso dei minori chiamati a testimoniare, in che modo può essere utile una valutazione neuropsicologica?
Nella valutazione peritale del minore chiamato a testimoniare, i test neuropsicologici possono essere utilizzati per indagare i vari aspetti cognitivi e psicologici che devono essere soddisfatti affinché si possa parlare di idoneità a rendere testimonianza, quali la capacità di ricordare e riferire fatti vissuti in prima persona, la capacità di espressione, la capacità di comprendere le domande poste dall’esaminatore, la capacità di identificare differenze minime di significato, la capacità di discriminare il vero dal falso e dal verosimile, la capacità di resistere alle domande suggestive quando queste sono inavvertitamente poste dall’esaminatore, la capacità di comprendere gli stati mentali altrui, la verifica dell’identificazione della sorgente. Appare quindi evidente come la valutazione dell’idoneità del minore a rendere testimonianza possa rappresentare una tipologia di perizie e consulenze particolarmente delicata. Specialmente quando il testimone è anche vittima di reati sessuali, il suo racconto solitamente è anche l’unica evidenza probatoria, mancando nella maggior parte dei casi altri riscontri esterni quali altre testimonianze, tracce biologiche ecc. Il risultato della perizia in questi casi può quindi determinare in modo pesante il giudizio finale del tribunale. Il perito è quindi caricato di una particolare responsabilità, in quanto eventuali errori possono avere conseguenze disastrose. Le più recenti indicazioni giuridiche (espresse in numerose sentenze) e le più importanti conoscenze scientifiche delineano la necessità di utilizzare una metodologia basata sull’evidenza scientifica (evidence-based) nelle valutazioni della testimonianza del minore. Ciò significa ricorrere all’utilizzo di metodologie validate, condivise dalla comunità scientifica di riferimento, ma soprattutto pertinenti. L’utilizzare una metodologia basata sull’evidenza scientifica consente di limitare gli errori di valutazione, e dunque permette al giudice di fondare le proprie decisioni su una prova scientificamente più affidabile riducendo quindi, di conseguenza, la possibilità di errori giudiziari. È importante ricordare che le caratteristiche neuropsicologiche del testimone devono essere rapportate con la complessità del fatto o reato oggetto della narrazione. Non esiste quindi un’idoneità in astratto, ma esiste un’idoneità a raccontare un determinato tipo di fatti con determinate caratteristiche spazio-temporali.
Quali sono gli aspetti etici da considerare nell’ambito della neuropsicologia forense?
Nella pratica clinica quotidiana il neuropsicologo si trova spesso ad affrontare situazioni che comportano l’adozione di regole e codici di comportamento, nel rispetto di questioni etiche. Nel complesso rapporto fra neuropsicologo e paziente, numerosi aspetti della pratica neuropsicologica – setting d’esame, refertazione, comunicazione dei risultati, rilascio dei dati, valutazione delle capacità, consenso informato, simulazione, cross-culturalità, etc. – possono rappresentare terreno fertile per l’emergere di conflitti etici, che possono diventare dilemmi in quanto mettono in competizione esigenze etiche, legali e organizzative, in assenza di riferimenti normativi legali e deontologici definiti. La rigorosa attenzione alle questioni etiche appare a maggior ragione fondamentale nell’esercizio della neuropsicologia forense, specialmente laddove tale pratica ha a che vedere con popolazioni fragili, quali minori, anziani e persone cognitivamente compromesse. In ambito forense i conflitti etici possono essere esasperati a causa della natura «avversariale» del sistema legale e della presenza di considerevoli incentivi che possono condizionare la metodologia utilizzata e le interpretazioni dei risultati, cui si aggiunge sovente la limitata esperienza forense di molti neuropsicologi clinici.
Quale professionista può eseguire la valutazione neuropsicologica forense? Qual è il contesto normativo di riferimento della professione in Italia?
Questo è un punto cruciale. Il neuropsicologo chiamato a fornire una valutazione in ambito forense dovrebbe possedere una competenza professionale con una doppia valenza: avere svolto un percorso formativo che documenti il possesso di un’adeguata cultura e professionalità in ambito neuropsicologico, associato a un ulteriore training in ambito giuridico, sebbene questo sia allo stato attuale meno definibile a priori… È bene sottolineare che al momento non ci sono in Italia (ma anche nella maggior parte degli altri paesi) programmi istituzionali di formazione, né organizzazioni professionali deputate specificamente alla neuropsicologia forense, anche se all’interno di alcune università sono attivati percorsi di specializzazione (per esempio master) che contengono insegnamenti in tal senso. Non esiste comunque un percorso formale per attribuire il titolo di neuropsicologo forense. Peraltro in Italia non è ancora istituzionalizzata la figura professionale del neuropsicologo. Solo recentemente sono stati creati corsi di laurea e specializzazione in Neuropsicologia, ma a tuttoggi l’esercizio della neuropsicologia non è regolamentato. Nella pratica, ed in attesa di normative ad hoc, al momento è accettabile ed accettato che tale attività sia appannaggio di medici – in genere neurologi – e psicologi con documentata formazione in neuropsicologia, per cui gli Ordini Professionali di riferimento in Italia sono quello dei Medici e quello degli Psicologi, diversamente da quanto avviene nei paesi anglosassoni, dove la neuropsicologia è tradizionalmente appannaggio dei laureati in Psicologia.
Intervista realizzata da Marco Mozzoni il 3/3/2010 (C) BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze http://brainfactor.it – Tutti i diritti riservati
Be the first to comment on "La neuropsicologia forense in Italia: BrainFactor intervista Andrea Stracciari"