Con l’articolo di Andrea Lavazza sul “Cervello Tranquillo” prosegue l’iniziativa di BrainFactor per la Settimana del cervello (12-18/3/2012) “L’Alfabeto del cervello”, patrocinata anche quest’anno da Dana Foundation e realizzata in collaborazione con la Società Italiana di Neurologia (SIN) e con il Dipartimento di Neuroscienze e Tecnologie Biomediche (DNTB) dell’Università di Milano Bicocca.
Tranquillo si dice di chi non è agitato da passioni, dolori, ansie, preoccupazioni e dubbi. Una media tranquillità è l’aspirazione che più frequentemente esprimiamo sia per il nostro stato interno, sia per le situazioni che ci circondano e in cui siamo immersi. Come donne e uomini, complessi e complicati esseri viventi, pur con varie accentuazioni individuali, siamo però in continua oscillazione tra i due poli della novità e della rassicurazione, dell’eccitazione e della calma.
Secondo gli psicologi evoluzionistici, è una “maledizione” che ci viene dalla nostra traiettoria naturale: in un ambiente in genere ostile era necessario diffidare di tutto e avere rifugio nelle persone e negli ambienti conosciuti e consueti. D’altra parte, chi era più intraprendente, si avventurava in contesti nuovi e sperimentava possibilità inesplorate, spesso trovava più cibo e migliorava la proprie condizioni. La selezione cieca, dunque, ci avrebbe dotati in media di quel mix di prudenza e di audacia, di pacatezza e di irrequietezza che proviamo ogni giorno.
Non è forse un caso allora che abbiamo creato una società frenetica, che non ci lascia un attimo senza stimoli ed emozioni, e che mentre ci agitiamo insaziati cerchiamo anche una “impossibile” tranquillità. Al di là delle spiegazioni darwiniane, il nostro cervello non sembra fatto per essere davvero “tranquillo”. E se anche non vogliamo assumere l’idea che tutta la nostra mente si riduca al funzionamento attualmente conosciuto del sistema nervoso, non possiamo negare che in tutto ciò tanta parte abbia quel chilo e 300 grammi di materia molle che sta nella nostra scatola cranica.
Implicitamente lo ammettono quegli italiani, in numero crescente, che ricorrono a trattamenti medici nel tentativo di trovare un po’ dell’agognata tranquillità. Secondo il rapporto dell’Agenzia del farmaco, nel 2010, i presidi del sistema nervoso centrale hanno costituito il terzo capitolo di spesa farmaceutica nel nostro Paese, per un totale di 3.313 milioni di euro, con un aumento dei consumi del 3,4% rispetto all’anno precedente. Siamo comunque ancora lontani dai picchi di alcune nazioni, come la Gran Bretagna, dove il ricorso ai farmaci del SNC è assai più alto. Non si tratta soltanto di ansiolitici, sebbene vi sia chi stima che nel 2020 il disturbo d’ansia sarà la seconda causa più importante di malattia e già oggi è ritenuto (forse con qualche esagerazione) responsabile della perdita del 3-4% del Pil dell’Unione Europea, a causa di una diminuita produttività delle persone colpite.
D’altra parte, va notato per inciso che non vi sono soltanto coloro che cercano di placare una situazione di eccessiva agitazione nervosa, bensì anche coloro che cercano di uscire da una situazione di estrema prostrazione, quella “tranquillità” angosciosa che va sotto il nome di depressione. E infatti tra i sottogruppi dei farmaci del SNC, il primo posto per spesa e per quantità prescritte è occupato dagli antidepressivi SSRI (inibitori della ricaptazione della serotonina). E dal 2002 al 2010 i consumi di antidepressivi sono stati in costante aumento, con un indice medio di variazione annua del 6,7%.
In tempi di crisi economica reale, in cui almeno sui media lo spread (numeretto minaccioso quanto oscuro ai più) pare diventato il vero indicatore di salute pubblica, sono comprensibili le ripercussioni che si manifestano sullo stato psicologico dei singoli. Il senso di precarietà economica generalizzata, l’insicurezza lavorativa, il complessivo malessere sociale percepito e acutizzato dai continui echi cui siamo esposti finiscono con l’indurre un disagio personale che può concretizzarsi in disturbi d’ansia, attacchi di panico e insonnia.
Per chi cerca un’azione sedativa benefica, le benzodiazepine (BDZ), o tranquillanti minori, sono i più comunemente prescritti (e, a volte, malamente autosomministrati). Le BDZ, sintetizzate negli anni 50 del secolo scorso e andate sostituendosi a barbiturici e neurolettici, agiscono potenziando l’azione dell’acido gammaaminobutirrico (GABA), neurotrasmettitore inibitore, con un diretto effetto ansiolitico, e attraverso un’inibizione di altri sistemi di neurotrasmettitori coinvolti nel controllo dell’ansia, come le vie noradrenergiche e serotoninergiche. Il principale meccanismo d’azione è dato dal legame delle molecole assunte con i recettori del GABA, che aumentano la probabilità che il neurotrasmettitore naturale determini l’apertura dei canali del cloro. In questo modo, il neurone è meno suscettibile all’eccitazione da parte di altre molecole cerebrali.
Le benzodiazepine, pur con analogia di struttura chimica e di meccanismo di azione, si differenziano per formula, impiego clinico prevalente (ansiolitico, anticonsulviante, ipnotico – disturbi del sonno), attività intrinseca, potenza, persistenza del legame e velocità di assorbimento. Una prima classificazione permette di distinguere tra molecole a bassa potenza (ad esempio, cloridazepossido, oxazepam); molecole a potenza intermedia (ad esempio, diazepam, clorazepato, clobazam); e molecole a elevata potenza (ad esempio, lorazepam, clonazepam, alprazolam e triazolam) (fonte: Neurolexicon, a cura di F. Monaco e R. Torta).
L’uso delle BDZ, che hanno scarsi effetti collaterali, comporta un certo rischio di dipendenza, sia di tipo psicologico, per la loro rapida e buona efficacia sui sintomi, sia di tipo fisico, con la possibilità che si instauri un meccanismo di vero abuso. Né va però sottovalutato, di fronte alle critiche che si appuntano sulla iper-medicalizzazione dello stress, il danno che può provenire da situazioni di prolungato disagio ansioso non adeguatamente curato.
Non c’è nemmeno bisogno di sottolineare che la ricerca di una “tranquillità” esistenziale non passa soltanto dai farmaci, ma può giovarsi anche di psicoterapie di vari indirizzi, così come di cambiamenti negli stili di vita, quando essi siano praticabili.
Ciò che un recente ambito di studio, denominato neuroetica, ha messo in luce è che esiste in effetti una tendenza a trattare il disagio ansioso soprattutto in una dimensione individuale (farmacologica), favorita dagli straordinari progressi della conoscenza del funzionamento del cervello e delle possibilità di cura (efficace, rapida e a basso costo). Se tuttavia si è in una situazione di stress causata, ad esempio, da una relazione affettiva insoddisfacente per responsabilità di un partner poco comprensivo o abusante, oppure provocata da un mobbing subito sul posto di lavoro, e si attua una risposta difensiva sul piano psicologico affidata a un farmaco ansiolitico, si potrà ottenere un (più o meno marcato) miglioramento soggettivo, senza però incidere sull’origine della condizione di stress. Anzi, l’attenuazione del disagio farà diminuire la pressione alla reazione e al cambiamento che naturalmente emerge quando siamo sottoposti a condizioni sfavorevoli.
Se a diventare “tranquillo” è sempre e solo il cervello, corriamo il pericolo che la società perda alcune risorse che stimolano a rendere oggettivamente migliore il mondo in cui viviamo, di modo che tutti possano scegliere liberamente e serenamente il grado di “tranquillità” cui accedere.
Andrea Lavazza
Centro universitario internazionale, Arezzo
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