Empatia, fra neuroscienze e antropologia filosofica

Empatia, fra neuroscienze e antropologia filosofica.“Se all’altro dolgono i denti, mi è chiara la sua fisionomia, l’immagine dei suoi muscoli contratti, lo spettacolo insomma di qualcuno afflitto dal dolore, ma il suo mal di denti non è mio… Il dolor di denti del prossimo è, in ultima analisi, una supposizione, un’ipotesi o presunzione mia, è un presunto dolore. Il mio dolore invece è indiscutibile.”

“Parlando rigorosamente, non possiamo mai essere sicuri che, all’amico che ci si presenta come afflitto, i denti dolgano davvero. Del suo dolore abbiamo palesi solo alcuni segni esterni, che non sono dolore; ma sono contrazione dei muscoli, sguardo vago. Vediamo in aggiunta una mano sulla guancia… Il dolore altrui non è realtà radicale, è realtà in un senso già secondario, derivato e problematico. La parte che di esso abbiamo come realtà radicale è solo il suo aspetto, la sua apparenza, il suo spettacolo, i suoi segni” [1].

Ortega y Gasset

Questo passo del filosofo spagnolo Ortega y Gasset (nell’immagine), tratto dal suo mirabile libro “L’uomo e la gente”, esemplifica l’impossibilità della conoscenza diretta di un’altra persona. Di ciò che più l’altra persona è. Di quelle che sono le caratteristiche specie-specifiche dell’uomo: il pensiero, l’emozione, i bisogni-desideri antropologici, le relazioni. L’altro è inafferrabile, direttamente.

Ciò significa che tramite la percezione (per-capere, cogliere con la mente) non ci è possibile conoscere quel “di più” che si manifesta nell’esperienza, e che non è sensorialmente rilevabile. Molti studi scientifici contemporanei, di ricerca [2] e clinici [3], ergendosi su presupposti scientisti e materialisti, considerano questa incapacità conoscitiva dell’uomo come l’evidenza della riducibilità del pensiero, delle emozioni e di tutto ciò che è immateriale della vita umana, ad epifenomeni complessi della materia. Così un giorno saranno misurabili i pensieri poiché espressione delle connessioni neuronali, le emozioni poiché insieme complesso di attivazioni e disattivazioni sub-corticali, la tensione continua alla felicità poiché carattere genetico ereditario.

E’ secondo questa prospettiva che, parafrasando un recente convegno sulle neuroscienze [4], il concetto di anima – non quantificabile, non dimostrabile, non riducibile – è stato sostituito da quello di psiche: prima “mente” poi sempre più “cervello” [5].

Molte ricerche, tuttavia, portano in evidenza la semplice esistenza di una realtà “altra” rispetto a quella percepibile direttamente dai sensi. E’ il caso, ad esempio, degli studi sui neuroni specchio applicati all’empatia. In uno studio molto conosciuto [6], alcune scimmie sono state sottoposte alla visione di un’azione svolta da un soggetto umano, che prima avvicinava una nocciolina alla bocca, poi alla spalla. Il movimento compiuto aveva la stessa dinamica iniziale sia nel compito di primo tipo che nel secondo: il braccio si spostava dal tavolino fino alla parte superiore dell’addome. Poi si diversificava: nel primo caso la mano giungeva sino alla cavità orale, per introdurvi la nocciolina; nel secondo la mano si spostava sulla spalla a pochi centimetri di distanza dalla bocca.

In entrambe le situazioni sperimentali l’attività neuronale della scimmia osservatrice aveva un’intensificazione nella zona corticale sede dei “neuroni specchio”. I risultati più interessanti dell’esperimento consistono, tuttavia, nella capacità di apprendimento della scimmia la quale, in prove ripetute, non attivava la propria parte corticale temporalmente dopo l’esecuzione del movimento da parte del soggetto, ma anticipandolo. Era sufficiente l’inizio del movimento per attivare nella scimmia la parte corticale relativa all’intero gesto. Sorprendentemente le scimmie discriminavano in partenza se la persona avrebbe posato la nocciolina nella bocca o sulla spalla. Ossia anticipavano il fatto, intuivano l’intenzione dell’altro.

Ovviamente l’intenzione è qualche cosa che attiene alla sfera del pensiero, della ragione e della volontà. Non è possibile coglierla direttamente. Le scimmie, dunque, percepivano direttamente alcuni segnali i quali, valutati globalmente, le portavano a cogliere il senso integrale del gesto umano, ossia il perché ognuno di quei segni aveva luogo. Una certa espressione del viso, la specificità della mobilità, lo sguardo, la postura, ecc. indicavano alle scimmie se il soggetto avrebbe posto la nocciolina alla bocca o sulla spalla, permettendo loro di cogliere l’invisibile.

Questo esperimento mette in luce – a giudizio di chi scrive – uno dei metodi utilizzati dalla ragione per conoscere la realtà: il metodo del segno. Pur dovendo premettere che l’esistenza ed il funzionamento dei neuroni specchio nell’uomo – la cui dotazione corticale differisce notevolmente da quella della scimmia – risulta ancora discussa [7] è possibile ipotizzare che meccanismi simili a quelli osservati nelle scimmie avvengano, con complessità e fenomenologia differenti, anche nell’uomo (la corteccia prefrontale potrebbe svolgere tale ruolo di integrazione degli stimoli – i segni –, del giudizio e della decisione).

Non possiamo “vedere” il pensiero altrui, tanto meno “udire” la sua emozione, ancor meno “toccare” il suo bisogno antropologico di felicità. Questo non vuol dire che essi siano inconoscibili. Anzi, la realtà quotidiana ci testimonia l’opposto. La conoscibilità di tali aspetti dell’uomo è possibile grazie ad un utilizzo della ragione “sui generis”, cioè attraverso un metodo di conoscenza che non è diretto, ma che è indiretto [8]: non passa attraverso i sensi, ma attraverso la testimonianza di segni. Così io posso conoscere il pensiero di un’altra persona, il suo stato d’animo, la sua emozione osservandone i tratti del volto, i movimenti del corpo, il linguaggio, l’azione [9].

Essi sono segni percepibili che mi rimandano ad altro, ossia sono segnali di una realtà extra-sensoriale (ma non per questo extra-percepibile) che si palesa attraverso di essi. Se ci si pensa un attimo questo tratto della realtà ha dell’incredibile. Quando incontriamo una persona noi – concretamente – incontriamo il suo corpo [10]. Ma nessuno si sognerebbe mai di pensare che quel corpo è vuoto, o che è un non-umano, tanto meno un robot, un alieno, o qualcosa d’altro. Automaticamente non abbiamo tali sospetti poiché da un numero elevato di segni – molti percepiti a livello inconscio – capiamo che di fronte c’è una persona: con intelletto e affezione, ragione e volontà, bisogni e desideri, ecc.

Si tratta di un processo basilare del nostro vivere, senza il quale non potremmo recarci dal panettiere, non avendo la certezza che i cibi sono sani, né fidarci della propria moglie, che potrebbe volerci uccidere, né stare seduti in una stanza, poiché potrebbe crollare. Invece la nostra ragione è dotata di un metodo di conoscenza che non percepisce direttamente i concetti, ma li capta attraverso segni concreti: così sappiamo con assoluta certezza che il pane non è contaminato, poiché conosciamo il panettiere e centinaia di persone che si servono da lui; che nostra moglie ci ama; che i muri non hanno crepe o altri segni che potrebbero indicarci una falla nella integrità strutturale.

La realtà, dunque, ci si svela attraverso segni concreti, e quindi percepiti dai sensi, che rimandano ad altro, ad una realtà non sensibile ma esistente, come il pensiero, l’emozione, il bisogno-desiderio, ecc.

Forse, parafrasando ed adattando una frase significativa di uno dei più importanti psichiatri e filosofi del secolo scorso – volutamente sconosciuto e dimenticato dalla modernità [11] – possiamo avanzare l’ipotesi secondo cui, come la psicologia, così anche le neuroscienze trovano la loro più compiuta applicazione nell’alveo della filosofia, “provvedendo alla metafisica dati preziosi che quest’ultima può usare per stabilire ancora meglio le sue affermazioni”, ma dipendendo da essa e dall’ontologia nella sua fondazione teoretica, “diventando sempre più ciò che essa è essenzialmente: ancialla philosophiae” [12].

Stefano Parenti
Psicologo clinico

Bibliografia

  1. Ortega y Gassett, L’uomo e la gente, Armando, pag. 50, 2006.
  2. Ad esempio, per una rassegna: S. Nannini, Naturalismo cognitivo, Quodlibet, 2001.
  3. Si veda il recente saggio di G. Israel, Per una medicina umanistica, Ed. Lindau, 2010.
  4. Cervello, mente, anima: l’uomo indiviso, Sabato 5 Marzo 2011, Brescia.
  5. C. Caffarra, Prolegomeni ad una riflessione sull’anima, Brescia, 5 Marzo 2011, dal sito www.caffarra.it; ma anche G. Ravasi, Breve storia dell’anima, Mondatori, 2009; J.C. Larchet, L’inconscio spirituale, Ed. San Paolo, 2006.
  6. Rizzolatti, G., Fadiga, L., Gallese, V. and Fogassi, L. (1996) Premotor cortex and the recognition of motor actions. Cog. Brain Res., 3: 131-141.
  7. Lingnau A, Gesierich B, Caramazza A (2009) Asymmetric fMRI adaptation reveals no evidence for mirror neurons in humans. Proc Natl Acad Sci USA 106:9925–9930.
  8. Cfr. L. Giussani, Si può vivere così?, BUR Rizzoli, 2006.
  9. Bellissima, a tal riguardo, la canzone di Lucio Battisti Mi ritorni in mente: “un sorriso / e ho visto la mia fine sul tuo viso”. Dal sorriso intuisce la fine del rapporto. Da un segno concreto un concetto astratto, invisibile, eppur presente e reale…
  10. Cfr. Giovanni Paolo II, Amore e responsabilità, Marietti, 2007.
  11. Ci si riferisce a Rudolf Allers, psichiatra viennese, allievo di Freud, di Kraepelin, di Adler, professore alla Gorgetown University con all’attivo più di seicento pubblicazioni. Cfr. psicologiacattolicesimo.blogspot.com
  12. Cfr. Rudolf Allers, Work and Play, Marquette University Press, 2008.

Articoli di BrainFactor che hanno trattato in questi anni il tema della solidarietà…

Il presente articolo è inserito nel contesto della maratona divulgativa di BrainFactor e Società Italiana di Neurologia (SIN) “L’Agenda del cervello: un argomento al giorno” in occasione della Settimana del Cervello promossa in tutto il mondo da Dana Foundation dal 14 al 20 Marzo 2011.

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