Cervello e coscienza: BrainFactor intervista Massimo Turatto

Cervello e coscienza: BrainFactor intervista Massimo Turatto.Massimo Turatto è professore di Psicologia sperimentale alla Facoltà di Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Trento e responsabile dei Laboratori di Psicologia sperimentale del Centro Mente Cervello (CIMeC) diretto dal Prof. Alfonso Caramazza. In precedenza è stato Honorary Research Fellow all’Istituto di Neuroscienze Cognitive dell’University College di Londra (UCL) e ricercatore post-dottorato all’Università di Padova con il Prof. Carlo Umiltà. Fra i suoi principali interessi di ricerca: l’attenzione visiva e crossmodale, i meccanismi di rilevazione del cambiamento nell’ambiente da parte degli organismi viventi, la coscienza. Ha pubblicato diversi libri e numerosi studi sulle più importanti riviste scientifiche internazionali. E’ uno degli organizzatori del terzo Workshop internazionale sull’attenzione che si svolge a Rovereto dal 29 al 31 Ottobre. Marco Mozzoni lo ha intervistato sul tema “cervello e coscienza”.

Professor Turatto, perché la coscienza, nonostante sia una delle caratterische umane più
studiate sin dall’antichità, è ancora oggi di così difficile definizione?

Sostanzialmente penso dipenda dal fatto che la coscienza è un fatto privato, è cioè un fenomeno assolutamente soggettivo, e quindi di difficile definizione e misurazione. Mi spiego meglio. E’ possibile stimare con molto accuratezza la capacità percettiva di un organismo (essere umano o animale), o di un dispositivo elettronico. Per esempio possiamo determinare la sensibilità di una fotocellula nel rilevare uno stimolo che entra nel suo raggio d’azione, in funzione del fatto che reagisca o meno allo stimolo. Allo stesso modo possiamo chiedere ad un essere umano di indovinare se abbiamo presentato un certo stimolo oppure no, a prescindere che gli sembri di vedere o meno qualcosa. In questo modo otteniamo una misura della capacità discriminativa, ma non della coscienza. Esistono infatti situazioni nelle quali l’essere umano mostra capacità discriminative, cioè sa percepire, anche quando gli pare di non saperlo fare, cioè quando dice di non esser cosciente di percepire alcunchè. L’esser cosciente di percepire è un fatto privato, che può comunicarci solo l’osservatore, e non abbiamo modo di ottenerne una misura oggettiva come per la sua capacità discriminativa. In sostanza dobbiamo fidarci di quello che ci dice, della sua esperienza personale. Questo rende difficile dare una definizione scientifica e condivisa di questo stato personale del cervello o della mente, cioè della coscienza.

La coscienza è distintiva della nostra specie o è una qualità che condividiamo con altri animali? Penso in particolare ai primati non umani…

Per rispondere mi ricollego alla domanda precendente. Per sapere se un animale è cosciente dovremmo poterglielo chiedere direttamente, ma questo com’è ovvio, non è un problema di facile soluzione, perchè è chiaro che l’animale non può usare il nostro linguaggio per dirci se è cosciente o meno. Sono stati fatti dei tentativi ingegnosi per cercare di ottenere delle risposte comportamentali dagli animali che possano essere interpretate come prova del fatto che l’animale ci sta comunicando non solo che sa percepire, cioè discriminare, ma anche che è consapevole di percepire. I risultati però non sono stati accettati da tutti come prova certa della coscienza negli animali. Nel caso dei primati non umani poi la questione è particolarlmente delicata, perchè alcuni di essi hanno un cervello veramente simile a quello dell’essere umano. Quindi, l’inferenza che possiamo fare è che una macchina neurale simile alla nostra possa produrre stati mentali simili, e quindi anche la coscienza. Si noti che in realtà il problema riguarda non solo sapere se altri animali sono coscienti, ma secondo alcuni sapere se altri essere umani siano coscienti. Per saperlo dobbiamo chiederglielo, e dobbiamo fidarci di quello che ci dicono. Ma l’essere coscienti è un’esperienza privata, e tale rimane. Non possiamo quindi escludere, in linea teorica, che esistano essere umani che hanno esattamente tutte le facoltà di cui disponiamo noi ma a cui manca solo la coscienza. Una sorta di automi molto sofisticati, ma senza coscienza.

“Coscienza” e “consapevolezza” sono termini interscambiabili o rappresentano costrutti (e realtà) differenti?

Direi che nella letteratura scientifica vengono usati in modo interscambiabile.

Allo stesso modo, “inconscio” e “attività non consapevole” sono solo due termini distinguibili storicamente o rappresentano stati differenti della dinamica del cervello?

Qui la questione è che tradizionalmente il termine inconscio ha avuto un grosso impatto nell’immaginario collettivo per merito del lavoro di Freud, tanto che molti pensano che sia stato lui il primo a trattare in modo sistematico questo stato della mente. Ma non è così, già prima di Freud verso la fine dell’800 alcuni psicologi americani affrontavano in modo scientifico la questione della percezione non consapevole, cioè se si vuole, dell’inconscio. Fornirono le prime evidenze sperimentali che esisteva nell’uomo la capacità di discriminare senza esserne cosciente. Non direi però che inconscio e attività non consapevole siano stati differenti del cervello. Peraltro la maggior parte delle nostre attività mentali avviene in modo non consapevole, e solo una parte di questa diviene cosciente. Per quale scopo non è ancora chiaro.

La coscienza umana è riducibile al cervello? In altri termini, è solo una della tante funzioni generate dall’attività instancabile delle cellule neurali o può essere ascrivibile a qualcosa d’altro?

Se non vogliamo adottare una prospettiva dualista, cioè esiste il corpo e la materia e poi esiste la mente o lo spirito, dobbiamo accettare che la mente, o se preferisce l’insieme dei processi cognitivi, e la coscienza, siano un prodotto del cervello e che senza questo non esistano. Se la coscienza non dipende dal cervello non saprei a cosa altro possa essere ascrivibile, a meno che non accettiamo posizioni spiritualistiche, rispettabili sin che si vuole, ma che esulano da un discorso scientifico. Quindi sì, la coscienza è un prodotto del cervello. E’ difficile capire come sia prodotta, ma questo è un altro problema. Filosofi e neuroscienziati si stanno confrontando su questo tema estremamente complesso.

Dunque, la spiritualità sembra essere di troppo all’interno di una ricerca che riduce sempre più l’umano nella sua complessità alle strutture e alle funzioni  del cervello… Solo il cervello materiale può “spiegare chi siamo”…

La spiritualità, qualunque cosa sia per ognuno di noi, non può che esser un prodotto del nostro cervello, come la coscienza, la memoria, il linguaggio o le emozioni. L’alternativa è una visione dualista, con tutti i problemi, scienficamente parlando, che questo comporta.

L’attenzione è condizione necessaria per la coscienza?

La visione dominante nella psicolgia cognitiva è stata, ed è tuttora, quella secondo cui prestare attenzione a qualcosa sia una condizione necessaria per divenire coscienti. In altre parole potremmo dire che si è coscienti di quello a cui si presta attenzione. Secondo questa prospettiva l’attenzione è vista come un cancello di accesso privilegiato dell’informazione alla coscienza. Ci sono sempre stati però ricercatori che hanno sostenuto che non sia così, ed oggi la possibile dissociazione tra attenzione e coscienza è tornata prepotentemente di moda. Sappiamo infatti che si possono trovare effetti dell’attenzione su stimoli che non si è coscienti di percepire. Allo stesso modo quando prestiamo attenzione a qualcosa possiamo non essere consapevoli di alcune cose attorno a noi, ma un certo grado di coscienza di dove siamo e della situazione generale continuamo ad averlo anche senza prestare attenzione a questi aspetti del mondo. Il problema è che sino a quando non avremmo una definizione chiara, e per ora non l’abbiamo, di cosa sia l’attenzione e cosa la coscienza si rischierà di ascrivere alcuni risultati all’una o all’altra funzione in base  a quale aspetto si vuole enfatizzare. Proprio di questo parleremo al terzo workshop internazionale sull’attenzione, organizzato dal CIMeC, che si tiene nei prossimi giorni a Rovereto. Il tema centrale quest’anno, dibattuto da alcuni dei maggiori esperti mondiali, è appunto la relazione tra attenzione e coscienza.

La coscienza può essere “visualizzata” con le tecniche di neuroimaging funzionale oggi a nostra disposizione?

Ci sono molti tentativi in tal senso. L’idea è quella di poter distinguere quali pattern di attività neurale portano il soggetto ad esser consapevole di qualcosa e quali no. Sappiamo ad esempio che le aree sensoriali deputate all’analisi iniziale normalmente devono essere attive affinchè poi si generi consapevolezza. Tuttavia la loro attivazione è condizione necessaria ma non sufficiente affinche ci sia poi coscienza di percepire qualcosa. Secondo alcuni la coscienza nasce quando il prodotto di reti di neuroni locali specializzati nell’analisi sensoriale viene inviato ad un altro sistema neurale con connessioni a più lungo raggio nel cervello, connessioni che coinvolgono soprattutto la corteccia prefrontale, parietale e inferotemporale. Quello che non è per nulla chiaro è quali siano le dinamiche temporali di tali attivazioni.

E’ noto che la percezione senza coscienza è possibile (es. visione cieca, neglect): è possibile invece una coscienza senza percezione?

Dobbiamo intenderci sul termine percezione. Se intendiamo percepire come la capacità di distinguere tra almeno due stati del mondo, compreso il mondo interno o mentale, allora ho paura di no. Faccio un esempio: se vedo una mela posso anche essere consapevole di vederla e so che è tale perchè si distingue da altri oggetti o dallo sfondo su cui appare. Se invece penso ad una mela posso dire che non sto percependo? Potrei ad esempio formarmi un’immagine mentale della mela, nel qual caso non è detto che tale rappresentazione sia così diversa da quella prodotta dalla mela stessa. Ricordiamo sempre che percepire vuol dire ricostruire la realtà.  Può esistere coscienza senza percezione guidata dal mondo esterno, questo sì. Ma allora sarò cosciente di qualche ricordo o pensiero, diverso da altri. Anche il fatto di esser cosciente di esistere è legato alla mia capacità di distinguermi dal resto del mondo, e quindi di percepire. Quindi posso esser cosciente di qualcosa senza percepire o discriminare una certa informazione da un’altra? Mi pare di no. Non credo possa esiste la coscienza senza un contenuto, senza quindi percezione.

Quali sono – a Suo giudizio – le potenzialità e i limiti degli attuali metodi di rilevazione della “coscienza” nei pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza?

Qui il problema è duplice. C’è un limite tecnologico, ma per fortuna lo strumento è sempre passibile di miglioramento. Si pensi all’aumento della potenza dei magneti impiegati nelle tecniche di risonanza magnetica per visualizzare il cervello al lavoro. Nuovi miglioramenti potranno consentirci una migliore localizzazione e una definizione delle dinamiche temporali più precisa. Però il secondo problema è di ordine teorico. Quale teoria abbiamo della coscienza? Quali indici usiamo per misurarla e definirla? L’essere coscienti è un requisito fondamentale per definire una persona ancora in vita? Potrebbe esistere, in liena di principio, ne abbiamo già accennato, una persona con tutte le funzioni cognitive intatte ma senza coscienza. Come la consideriamo? In fondo sappiamo ormai in modo chiaro che il nostro cervello esegue tantissime operazioni senza l’intervento della coscienza. Si tratta quindi di ottenere una migliore definizione della coscienza e soprattutto di scoprirne il ruolo. A cosa serve? Non è ancora chiaro…

Intervista realizzata da Marco Mozzoni il 27/10/2009 © BRAINFACTOR Cervello e Neuroscienze – http://brainfactor.it

 

Caramazza e Turatto

Nell’immagine: il prof. Massimo Turatto (a destra) con il prof. Alfonso Caramazza, direttore del CIMeC di Rovereto (Credits: foto di Nicola de Pisapia)

 

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Marco Mozzoni
Direttore Responsabile

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