ADHD e genetica, forse che sì forse che no…

ADHD e genetica, forse che sì forse che no...

Fra i fattori di rischio per l’ADHD possiamo includere anche le “anomalie” genetiche? Forse che sì forse che no, direbbe D’Annunzio a questo punto… Giù le mani dai bambini ha diramato oggi un comunicato in cui valuta semplicemente “ridicole” le speculazioni mediatiche seguite allo studio di Nigel M Williams e colleghi dell’Università di Cardiff, pubblicato il 30 settembre scorso su Lancet (vedere articolo di BrainFactor del 5/10/2010).

Secondo Giù le mani dai bambini, che vede fra i promotori anche Ordini professionali di medici e psicologi, università, enti e associazioni del volontariato sociale, “i principali organi di stampa hanno riportato che lo studio di Williams e colleghi avrebbe fornito le prove dell’origine genetica dell’iperattività, affermazione questa che non solo avrebbe validato le terapie a base di metanfetamine comunemente utilizzate su bambini piccoli per sedarne l’iperattività, ma avrebbe anche aperto la strada a nuove tecniche futuribili per una manipolazione genetica in chiave preventiva del disturbo”, come si legge nel comunicato stampa di oggi.
Sempre secondo il comitato italiano, anche “il neurologo Fred A. Baughman, autorevole esperto di ADHD e membro dell’Accademia Americana di Neurologia, avrebbe preso posizione contro la ricerca pubblicata da Lancet”. “Siamo alle solite – dice Baughman, come riporta il comunicato – questo non è certo il primo studio che suppone anomalie cromosomiche in pazienti ADHD; il punto è un altro: in uno studio scientifico su piccoli in cura farmacologica, il team del ricercatore El-Zein ha riferito che il trattamento ha comportato un aumento significativo nelle modifiche cromosomiche”. 
“Perché allora – prosegue Baughman – Williams e il suo staff non hanno riferito sullo stato clinico dei loro piccoli pazienti affetti da ADHD, la maggioranza dei quali sono stati appunto trattati con metamfetamine, che, come noto, possono causare atrofia cerebrale, anomalie genetiche e anche cromosomiche? Questo non è onesto. Aggiungo che la questione non è se Williams e la sua équipe abbiano dimostrato o meno l’origine genetica dell’ADHD: il problema è se si possano diagnosticare malattie mediante esami così soggettivi. Non è possibile e quindi questo genere di affermazioni sono solo una truffa”.
Parole dure quelle di Baughman, rinforzate direttamente dal portavoce italiano di Giù le mani dai bambini, Luca Poma, che muove una critica precisa al ruolo svolto dai media nell’intera vicenda: “L’équipe della Cardiff University ha rilevato alterazioni in 57 bambini su 366 analizzati e sulla base di dati così esigui i mezzi di informazione hanno parlato di ‘svolta’ nella tracciatura dell’origine genetica dell’ADHD. Tutto questo è semplicemente ridicolo”. “La verità – prosegue Poma – è che questo tipo di ricerche possono provare tutto e il contrario di tutto: sono utilissime per fare passi avanti, ma nessuna di esse è risolutiva. Ne leggiamo di ogni tipo, tutti i mesi: è ora che i colleghi giornalisti, perlomeno quelli seri e responsabili, la smettano di gridare al miracolo ad ogni nuova ricerca, per poi venire smentiti due settimane dopo”. 
Zelo mediatico sistemato, facendo un passo indietro, il peccato originale l’avrebbe commesso in realtà la stessa rivista scientifica Lancet, su cui è stato pubblicato lo studio, nel momento in cui ha deciso di far uscire un comunicato stampa apparso a molti eccessivo rispetto ai risultati della ricerca. E di ciò se n’era già accorta proprio la stampa, la stampa più attenta almeno… Fra gli altri, Fergus Walsh, corrispondente medico della BBC, che in un suo articolo titolato “The genetics of ADHD” ha evidenziato subito a fine settembre il pericolo di leggere nello studio di Cardiff più di quanto effettivamente in esso vi è. Il tiolo del comunicato di Lancet “Lo Studio è il primo a trovare prove dirette che l’ADHD è un disordine genetico” e il commento di uno degli autori, Anita Thapar (che avrebbe sostenuto che “adesso possiamo dire con fiducia che l’ADHD è una malattia genetica e che il cervello dei bambini affetti da questa condizione si sviluppa diversamente da quello degli altri bambini”), sarebbero infatti disconfermati proprio dai contenuti dello studio pubblicato su Lancet. 
Così riassume Walsh nel suo articolo: “Lo studio analizza il DNA di 366 bambini con ADHD e 1.047 controlli. I ricercatori hanno scoperto che quelli con ADHD avevano una probabilità doppia di avere porzioni di DNA mancante o duplicato, regioni conosciute come varianti in numero di copie (CNV – NdR), una variazione genetica comune anche in altri disordini del cervello… Ho fatto qualche conto, dal quale risulta che circa il 15% dei bambini con ADHD avevano la variante genetica e circa il 7% del gruppo di controllo non l’aveva. Detto in altro modo, tale variante interessava un bambino su 7 di quelli del gruppo ADHD e uno su 14 degli altri. Ciò vuol dire anche che ben 7 bambini su 8 nel gruppo ADHD non presentavano tale variante – e questo difficilmente giustifica le asserzioni del professor Thapar in merito alla natura genetica dell’ADHD. Interpellata, la Thapar ha chiarito che non voleva in realtà sostenere che il fattore genetico fosse l’unico responsabile dell’ADHD, ma che al disturbo facesse capo un insieme complesso di fattori genetici e ambientali”.
E così prova a sua volta a chiarire il garbuglio Poma: “Siamo in un settore per nulla neutrale: interessi finanziari miliardari, marketing farmaceutico, corruzione dei ricercatori, organismi di controllo sanitario che non rivestono il proprio ruolo di severo controllo, e molte altre variabili impazzite rendono questo genere di conclusioni, spacciate per risolutive, del tutto inadeguate a inquadrare un fenomeno così complesso… Domandiamoci più che altro quale responsabilità abbiamo noi adulti in questo scenario: abbiamo creato una società delle performance, soffocata da principi come il ‘tutto e subito’, schiava del distributore automatico di pillole della felicità e ora i nostri bambini ne stanno pagando il prezzo”. “Questi sono scenari complessi e per essi non vi è una risposta univoca: diffidate sempre delle soluzioni facili a problemi complessi”, aggiunge con pragmatica saggezza Bill Carey, professore di pediatria comportamentale all’Università della Pennsylvania.
 
E’ sempre buona prassi, del resto, in particolare quando si ha a che fare con la salute delle persone, attenersi a una delle regole fondamentali del giornalismo (ma non solo): quella di verificare la fonte. Nella fattispecie, è sempre meglio (e doveroso) andarsi a leggere direttamente lo studio, di cui i comunicati ormai troppo spesso tendono solamente a tessere le lodi, prima di scriverne rendendosi giocoforza fiancheggiatori di quotidiane improbabili rivoluzioni, per l’uno o per l’altro mulino a cui possa servire acqua…
 
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